La grande marcia non si ferma Ora la Cina vuole pure la Luna

La grande marcia non si ferma Ora la Cina vuole pure la Luna

Ormai è solo questione di tempo. Una manciata d’anni - da qui al 2018, diciamo - e la Cina avrà sorpassato, surclassato, bypassato gli Stati Uniti d’America sotto il profilo economico e fors’anche sotto quello militare. Intanto, con l’anno che viene, Pechino progetta di mandare un uomo sulla Luna, e già che c’è, e per far sapere come la pensano, sotto la volta dell’ex Celeste Impero stanno già facendo le prove generali, col Giappone, per un affrancamento dal dollaro (e dunque dall’influenza Usa nel Pacifico) negli scambi commerciali d’area. Yen giapponese in cambio di yuan cinesi, saltando a piè pari il bigliettone verde con le facce dei presidenti Usa che finora era stata moneta ufficiale e di riferimento negli scambi. Come dire: siamo grandi, facciamo da soli, arrivederci e grazie.
Ce lo diciamo da anni che la Cina, col suo bagaglio di centinaia di milioni di esseri umani con le facce che a noi sembrano tutte uguali, è vicina. Ma che sia pronta a balzare a cassetta della diligenza che tira le sorti del mondo, impugnando la frusta, continuerà a sembrarci uno scherzo del destino ancora per un pezzo.
Un cinese sulla Luna, dunque, dopo il 2020. Là dove gli americani si erano avventurati nel 1972, l’ultima volta, nell’ambito della missione Apollo 17. Lo scrive il Financial Times, ricordando quelle che in passato sembravano fanfaluche, ipotesi, strampalate congetture. Ecco ora invece un bel documento ufficiale in cui si dice bello chiaro che «la Cina condurrà studi preliminari per un atterraggio umano sulla Luna»; e già si progettano nuovi satelliti, una bella stazione spaziale per il 2016, e un fantastico marameo allo Space Shuttle spedito cinque mesi fa nelle soffitte americane di Cape Canaveral per mancanza di fondi. Parola di Zhang Wei, un funzionario dell’agenzia spaziale cinese. E siccome il signor Zhang si rende conto che noi guardiamo ancora a lui e ai suoi connazionali come a dei marziani, ha tenuto a spiegare che non è così; che «i cinesi sono come tutti gli altri abitanti della Terra. Guardiamo il cielo stellato e vogliamo esplorare le immensità dell’universo». Che la musica stia cambiando, e con essa anche il direttore d’orchestra, lo si era capito nei giorni scorsi, dopo la sigla fra Cina e Giappone di un patto che prevede di ridurre drasticamente l’utilizzo del dollaro nei loro scambi commerciali fidando sempre più sulle rispettive monete nazionali. Più yen e yuan, insomma, e meno dollari americani, anche se l’accordo per ora ha più che altro valore simbolico. La mossa punta anche a rafforzare le relazioni tra i due Paesi visto che Tokyo si è impegnata ad acquistare titoli di Stato di Pechino aprendo così per la prima volta le riserve in valuta estera al debito in yuan in modo da poter reinvestire il nuovo flusso di moneta cinese.
Resta il fatto che la svolta è dettata in buona parte dalla preoccupante fase di fragilità dell’area euro-dollaro che spinge Pechino ad acquisire un ruolo di maggiore rilevanza sullo scenario mondiale per rispondere all’esigenza, più volte manifestata dalle altre grandi economie emergenti, di un generale riposizionamento fra le maggiori valute. Ma non è detto che l’invadenza cinese venga solo per nuocere. Agli occhi del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, per esempio, il patto Cina-Giappone rappresenta quasi una sfida, un pungolo che esalta l’importanza di una «Europa unita e di una moneta comune». C’è una data, tuttavia, che inquieta gli analisti politici e finanziari d’oltre Atlantico. L’anno fatidico, quello del sorpasso della Cina sugli Stati Uniti, è il 2018. La profezia è dell’Economist, e a giudicare dalla mole di dati messi in fila dal settimanale inglese, la «fine del mondo» (come noi lo abbiamo conosciuto, perlomeno, nel secolo scorso) pare avere maggiori chance di avverarsi di quella dei Maya, che la fissano all’anno che viene. E a giudicare dal trend, come si dice, pare che non ci siano grandi possibilità di fermarlo. Questo dicono i dati di crescita presunta del Pil cinese e americano (un 7,75 per cento di media in Cina contro un 2,5 per cento negli Usa nel prossimo decennio), i tassi d’inflazione e quelli di cambio dello yuan.
L’incrociatore da battaglia cinese, insomma, pare inarrestabile.

Anzi, se si valutano alcuni degli indicatori che «fanno» la ricchezza delle nazioni (produzione manifatturiera, esportazioni, investimenti) la Cina ha già superato l’America. E intorno al 2025, anche la quantità di bombe e di cannoni fra Cina e Usa si equivarrà. Insomma: più vicina di così…

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