Grande schermo, grandi polemiche La beffarda settima arte di Indro

Stroncò «La corazzata Potemkin» e fece volare gli stracci quando sceneggiò «Il generale della Rovere» per Rossellini

Grande schermo, grandi polemiche La beffarda settima arte di Indro

Dei tre era il più battagliero. Il più mordace. In una parola, controcorrente. E non si faceva pregare troppo quando si trattava di menar fendenti a destra e a manca per difendersi dai soprusi. Lui, che era il bersaglio degli scherni di Bruno e Buffalmacco, aveva trovato nel carattere la sua corazza. Dal Decameron sono passati più di seicento anni e Calandrino, lo smalto aguzzo del toscanaccio, non lo ha mai perso. Se ne innamorò - letterariamente parlando - perfino Indro Montanelli. Con il cinema, Montanelli visse un rapporto controverso ma non ne disdegnò mai il fascino e, negli anni Quaranta, quando Alberto Mondadori lo chiamò al settimanale Tempo, scelse proprio il nome di quel bischero per firmare recensioni. E il soprannome, affibbiato al pittore Giovannozzo di Pierino, calzava su misura per la penna di Fucecchio.

Montanelli non si sentiva uno specialista. Non aveva ricevuto la vocazione per la Settima arte e la prospettiva dei suoi giudizi era quella della strada. Della gente. I film non finivano sotto il microscopio dello storico o del filosofo ma sul vetrino del buonsenso. Si considerava un testimone. Meglio ancora, un termometro. Registrava la temperatura della sala e la traduceva in parole. A uso e consumo del lettore. Eppure il grande schermo lo aveva già attirato e, a metà degli anni Trenta, il ventiseienne Indro si era preso la briga di scrivere sulle pagine di Critica fascista. Nel '38, nei cupi mesi delle leggi razziali, sulle pagine di Film, commentò l'uscita di Partire, commedia lieta e bizzarra di Amleto Palermi che, nello stile dell'epoca, stemperava le tensioni mettendo in scena un pasticcione che le tentava tutte pur di farsi licenziare ma otteneva l'effetto opposto, facendo il bene dell'azienda. Perfino quando tentava di sedurre la figlia del padrone, già fidanzata a un altro. Insomma, una pappa.

Il non-critico Montanelli se ne accorse. «Sono un uomo della strada, non un addetto ai lavori», scrisse. E non per passione retorica ma per rendersi più autentico. Tanto meno fece sconti a quella zuppa in celluloide che «per contentare tutti finiva per non contentare nessuno, benché nella produzione nostrana si piazzi tra i migliori». Allora come oggi furono anni di fragilità, spezzati solo dalla commedia all'italiana che avrebbe dato smalto alla nostra cinematografia.

Addio d'autore. Cilindro, come lo avrebbero ribattezzato gli amici, non voleva restare imprigionato lì. In quella Settima arte che non era casa sua. Guardò più in là. Vide oltre. E i film cominciò a leggerli in chiave politica. Una delle sue passioni diventava il lasciapassare per un viaggio impegnativo. Cogliere il confine che separava l'opera dello sceneggiatore/autore da quella del regista fu il primo passo. La dittatura dell'uno e l'autorità dell'altro si fronteggiavano in un contesto in cui affrontare questo tema era pericoloso. Una lotta di potere che dava vincitori diversi da caso a caso. «La condanna di Vecchia guardia, ad esempio, colpì più Zucca che Blasetti» commentò. Finì peggio al soggettista rispetto al cineasta ma la verità è che non si trattò di assegnare una vittoria ai punti.

Era la dialettica politica a entrare pesantemente in gioco. Soprattutto quando cinema iniziò a far rima con censura. E Montanelli s'infuriò. «Quando si tratti di menar le mani contro i censori, Calandrino sarà sempre in prima linea» scrisse su Tempo nel '43, anno - a suo modo - di svolta. E in nome e a firma di quel birbante fece a pezzi mostri sacri, anche quando ne capiva l'intento artistico. La corazzata Potëmkin «si ammira senza commozione, non prende lo spettatore, non comunica calore». Prima che Fantozzi fosse. Trent'anni d'anticipo su quel famoso epigramma - «Una boiata pazzesca» - che ha fatto il giro del mondo. Etichettò La regola del gioco come un passo falso di Jean Renoir, autore che amava a dispetto della sua inclinazione sinistroide e dell'unanime coro mondiale di elogi. CalandrIndro irriverente. E, naturalmente, controcorrente. Il pensatore liberale riconosceva la grandezza di Tempi moderni. «Se nove anni di età, tradotti in celluloide, sono la preistoria, quella di Chaplin ha rughe amabili», salvo poi stroncare - di lì a qualche anno - Il grande dittatore definendo il regista britannico un «sinistrato del 25 aprile». Giudizio fin troppo bruciante e severo per un film del '40 al quale solo la guerra impedì la diffusione in molti Paesi. In Italia arrivò con la Liberazione. Con buona pace di Calandrino. Il birbante recensore che bocciò tutti gli attori italiani considerati solo caratteristi, eccetto Anna Magnani e Vittorio Gassman, al grande schermo donò creatività. A sottolinearlo sono anche le pagine dello studioso Rinaldo Vignati, autore del volume Indro Montanelli e il cinema in uscita a settembre per i tipi di Mimesis. E alla critica affiancò l'opera di sceneggiatore, autore e regista.

Alla difesa d'ufficio della Dolce vita di Fellini che «avrebbe dovuto essere vietato ai maggiori di sessant'anni per la potenza e requisitoria della sua e nostra società» si affiancavano opere destinate a diventare soggetti. E, con Il generale Della Rovere, girato da Roberto Rossellini, sfiorare perfino l'Oscar.

L'autorialità di Montanelli si snocciolava nel filone resistenziale di Pian delle Stelle in cui il regista Giorgio Ferroni e lo sceneggiatore di Fucecchio apparivano presenze quasi incongrue, visti i loro legami con il regime. Correva il 1946 e il film rappresentava l'altra campana. Quella opposta a Il sole sorge ancora di Aldo Vergano che esibiva firme progressiste militanti come Guido Aristarco, Carlo Lizzani e Giuseppe De Santis. Ne uscì un'opera apprezzata, seppur con moderazione, che amalgamava il dramma alla commedia romantica e metteva in vetrina fuorilegge destinati poi a prendere consistenza in Tombolo paradiso nero, ricavato sempre da Giorgio Ferroni su una serie di articoli del giornalista relativi alla pineta che si stende fra Livorno e Pisa. Covo di evasi e disertori.

Stralci neri di marginalità. A pochi passi dalla ricostruzione e lontani dalla ripresa di un'Italia - e forse un'Europa - che annaspava. Senza campioni né eroi. Fatti a pezzi ne L'amant de marbre, scritto con Jean George Auriol e pubblicato sulla prestigiosa Revue du cinéma. Il protagonista Folco Ferrasco ha i tratti di un odiato concittadino. Curzio Malaparte occhieggia da quel profilo e abbattuto dal piedistallo. Non divenne mai film finché non finì in mano a John Fante che lo lesse sul Los Angeles Times. Era il '51 e lo sceneggiò per la tv. A dirigere A Hero Returns fu un fuoriclasse, Jacques Tourneur. Il 10 gennaio 1956 l'America vide un pezzo d'Italia filtrata tra Montanelli e Bandini. Modi diversi di chiedere alla polvere. Dieci anni dopo, King Vidor chiese i diritti. Nulla si sa della risposta ma la pellicola non uscì mai.

Il generale Della Rovere a suo modo tornava al filone resistenziale. Montanelli ci aveva messo del suo. Ricordi di prigionia a San Vittore negli anni della guerra. Il regista Rossellini lo fece sceneggiare a sei mani. Oltre all'autore, il comunista ortodosso Sergio Amidei e il cattolico Diego Fabbri. La convivenza scoppiò e, quando Montanelli pubblicò il romanzo e l'adattamento teatrale, i nodi vennero al pettine. Volarono accuse, mascherate dal Leone d'oro vinto a Venezia nel '59. E dalla candidatura all'Oscar.

L'Italia viveva il suo boom ma l'Ungheria era crollata ai piedi dell'Unione Sovietica. Indro ne era stato testimone, raccontando con la sua «Lettera 22» i soprusi del Cremlino. Bipolarismo e guerra fredda finivano anche al cinema con I sogni muoiono all'alba (1961) in cui cinque cronisti italiani di diversi orientamenti raccontavano la rivoluzione strozzata del '56. Montanelli scrive soggetto e sceneggiatura. Alla regia associa Enrico Gras e Mario Craveri per la parte tecnica e mantiene la direzione degli attori Lea Massari, Ivo Garrani, Gianni Santuccio, Aroldo Tieri, Mario Feliciani e Renzo Montagnani. Sul set arrivò trasportato da un carretto. Qualche giorno prima, l'amato pastore tedesco Gomulka - citazione involontaria - l'aveva fatto cadere dalla bicicletta.

S'ispirò a Sidney Lumet e a La parola ai giurati, collezionando la sinistra stroncatura de l'Unità, l'oltraggio di un prematuro oblio e due stelle da Mereghetti e Farinotti nei loro dizionari. Calandrino era tornato nelle pagine del Decameron. Indro era diventato Montanelli.

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