Cultura e Spettacoli

GRANDI Fascista con riserva

Già nell’aspetto fisico, Dino Grandi si imponeva come una figura carismatica: alto, massiccio, zigomi sporgenti in una faccia dominata da occhi infuocati, con un pizzetto sul mento.
I biografi del gerarca fascista (1895-1988) hanno ignorato, inspiegabilmente, alcuni documenti che avrebbero dovuto trovare spazio in un’opera ragionata. Sono le carte del «fascicolo Grandi» che Mussolini incluse tra i documenti che recò con sé fino a Dongo. Perché trascurarne l’importanza, se il Duce medesimo ne annetteva moltissima?
Un primo gruppo di documenti si riferisce al caso delle dimissioni dalla presidenza del gruppo parlamentare fascista che Mussolini presentò e reiterò, tra il marzo e il maggio del 1922, pochi mesi prima della Marcia su Roma.
Il Duce, in una lettera ai deputati fascisti eletti a Montecitorio nel ’21, motivò il proprio gesto con la necessità di concentrarsi maggiormente sulla sua azione di leader politico fuori del Parlamento. Mussolini desiderava sottolineare maggiormente il suo profilo di opinion leader, restando a Milano a dirigere Il Popolo d’Italia, piuttosto che «perdere tempo» in Parlamento o nei palazzi romani.
La posizione di Grandi, a tale proposito, è molto interessante. Tra la fine del 1921 e i primi mesi del 1922, il ras bolognese si era allineato a Mussolini, rientrando dalla sua posizione di prima fila del cosiddetto «dissidentismo fascista». Grandi, futuro conte di Mordano, aveva definitivamente riconosciuto Mussolini come capo del movimento, e lo aveva appoggiato nel respingere l’ipotesi di una fusione tra fascismo e nazionalismo. Sostenitore del sindacalismo nazionale, alfiere dello squadrismo padano come autentica fucina del movimento, Grandi non recedeva dalla sua posizione «di sinistra», che si poneva quale erede dei sentimenti democratici e mazziniani e di un riformismo strategicamente e strutturalmente antitetico al bolscevismo e al massimalismo socialista. Proprio per questo, egli avversò quell’ipotesi di pacificazione con i socialisti - che invece Mussolini aveva tentato di realizzare -, nella convinzione che i nemici ideologici non avrebbero mai deposto le armi.
L’episodio delle dimissioni del Duce da presidente del gruppo parlamentare è estremamente rivelatore sia della direzione antiparlamentare che Mussolini aveva imboccato, sia dell'evoluzione dei suoi rapporti con l’ambiziosissimo Grandi. Ebbene, ciò che sorprende nei documenti del tempo, è l’immagine di sé che il giovane gerarca, all’epoca appena ventisettenne, vuole scopertamente offrire. A fronte di un gruppo parlamentare fascista che respinge unanime le dimissioni del Duce, temendo di finire allo sbando, senza un condottiero, Grandi appare invece sicuro di sé fino alla spavalderia. Se Costanzo Ciano, facendosi interprete dello smarrimento dei suoi colleghi alla Camera, in una lettera del 5 maggio, prega Mussolini di soprassedere alla sua scelta, il giorno medesimo, in una seconda missiva, Grandi fornisce una prova di olimpica serenità. Già nello stile, le due lettere rivelano approcci antitetici. Ciano, con testo dattiloscritto su carta intestata della Camera, si rivolge al capo con un «caro Mussolini». L’altro esordisce confidenzialmente con un «Caro Benito».
Del resto, lo stesso Mussolini, nella lettera ai deputati fascisti del 3 maggio 1922, accenna al possibile delfino destinato a sostituirlo nelle trincee parlamentari. Delinea infatti questo ritratto del suo successore alla Camera: «Fra voi non manca l’uomo che per autorità, ingegno, dottrina, può sostituirmi. E in meglio». Alludeva a Costanzo Ciano o a qualcun altro?
Sia come sia, in ogni caso Grandi, nella lettera del 5 maggio, già scalpita e si atteggia a capo designato della pattuglia fascista alla Camera. Egli concorda con il capo sulla necessità di mettere «sotto pressione» il governo in carica, ma è cauto nel trarre conclusioni sull’opportunità di procedere a un rovesciamento del gabinetto Facta: «Nelle attuali condizioni della Camera non si potrebbe avere un governo migliore e più favorevole - in definitiva - a noi, dell’attuale». Grandi aggiunge però che occorre sferzare il gruppo parlamentare fascista, che manca di disciplina e di nerbo, forse anche a causa del fatto che si avverte l’assenza di Mussolini dall’aula. Sulla situazione a Montecitorio, egli annota infatti: «Sedute scialbe, senza interesse, quasi deserte. La Destra e il gruppo fascista assenti quasi completamente. C’è da scoraggiarsi. C’è da domandare se questo sia un sintomo assai grave. Mentre da ogni parte d’Italia giungono a Roma commissioni, richieste dalle nostre Province per interessamento presso le autorità centrali - i nostri Fasci chiedono e chiedono - qui non c’è nessuno».
Con ostentata sicumera, Grandi chiude il suo lungo messaggio (quasi una controrelazione sulla situazione politica) manifestando già il desiderio di procedere al passaggio di consegne: «Ti terrò al corrente di tutto quanto possa interessarti, e di tutto quanto possa avere qualche valore, qui entro il baraccone». Questa fuga in avanti del ras emiliano suona assai male alle orecchie di Mussolini, che non a caso conserva in evidenza il dossier sulle dimissioni dal gruppo parlamentare fascista come prova dei comportamenti «sospetti» di Grandi anteriori al 25 luglio 1943.
Dall’avvento del regime alla sua caduta trascorrono venti anni. Il secondo documento - che a parte riproduciamo integralmente - si riferisce infatti al controverso capitolo della seduta del Gran Consiglio del fascismo nella quale Mussolini venne messo in minoranza. Grandi fu l’artefice dell’ordine del giorno che egli volle sempre qualificare come atto legittimato da una corretta procedura costituzionale. Quali furono i rapporti tra Dino Grandi e il nuovo capo del governo nominato dal re, il maresciallo Pietro Badoglio? Poiché il conte di Mordano sapeva di appartenere a quella riserva di uomini, a quella ristretta rosa di candidati sulla quale gli inglesi puntavano per la successione a Mussolini, è del tutto evidente che egli guardava a Badoglio come a un concorrente. Per vent’anni, Grandi aveva servito il regime, tentando di armonizzare gli interessi italiani con quelli degli inglesi: quindi, aveva sperato di ottenere per lui stesso quella carica. Non è d’altronde un mistero che lo stesso Churchill vedesse di buon occhio la nomina dell’ex ambasciatore a Londra.
Dino Grandi vide una sola volta Badoglio, pochi giorni dopo il 25 luglio 1943, e fu un colloquio agitato, burrascoso, perché - respingendo i bizantinismi della casa reale - l’ex ministro fascista sosteneva la necessità di guadagnarsi una pace onorevole con gli Alleati facendosi trovare belligeranti contro la Germania. Il prezzo per evitare la resa condizionata era di scendere in campo contro i tedeschi.
Badoglio, evidentemente, non era dello stesso avviso, non ancora almeno. Ma ciò che meraviglia davvero, alla luce di queste considerazioni, è leggere le sperticate espressioni di elogio che Grandi scrisse di suo pugno nella lettera di congratulazioni inviata al rivale dopo la sua nomina («Nessuno meglio e più del vincitore di Vittorio Veneto, del conquistatore di Kufra e di Addis Abeba può ... portare la Patria a salvamento»).
Che Dino Grandi avesse una spiccata propensione per l’adulazione lo si evince tra l’altro da un documento poco conosciuto, il resoconto che Roberto Farinacci lasciò della seduta del Gran Consiglio del 25 luglio '43. In quel contesto drammatico, nel quale si giunse al redde rationem, il Duce e il conte di Mordano ebbero un significativo scambio di battute. Colui che aveva concepito e presentato l’ordine del giorno di sfiducia nel capo del fascismo, poi approvato a maggioranza, esordì con una esagerata dichiarazione di lealtà all’uomo che stava invece per abbattere: «Duce, voi sapete che la mia fedeltà alla vostra persona e al regime è fuori discussione. Questo sentimento non potrà morire che con voi, perché il vostro genio che ha guidato...». Mussolini non lo lasciò neppure finire: «Stasera vorrei evitare le solite cortigianerie».
Il seguito del dibattito fu aspro.

Grandi sostenne che era «giunto il momento di parlare chiaro» e il dittatore lo fulminò con un’altra battuta: «Allora questa sarebbe la prima volta che parli sinceramente?».

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