Cultura e Spettacoli

Guai agli adulti che non ricordano di essere stati una volta bambini

"Toy Story 3", una favola per i piccini che dà una lezione ai più grandi. Chi abbandona i propri giocattoli, non se li è mai davvero meritati

Guai agli adulti che non ricordano di essere stati una volta bambini

Chi - crescendo - getta via i giocattoli, dimostra di non averli meritati e, soprattutto, lascia capire che diverrà ciò che è: uno dei tanti adulti aridi, di quelli che si disferanno di genitori e amici (intesi come alleati) appena saranno inutili.

Così Toy Story 3 di Lee Unkrich, nelle sale italiane dall’altro ieri, sviluppa la tesi degli episodi precedenti della serie, che ha fatto la fortuna meritata di John Lasseter. Il presupposto è che l’affetto per cose e persone abbiano la stessa matrice e che esso sia tanto più intenso quanto meno sia un camuffamento della possessività. Del resto la percezione del bambino è che siano gli oggetti a giocare con loro e che siano più disponibili, quindi più affettuosi perfino di buoni genitori. Per chi li ha amati, i giocattoli sono vivi e lo restano anche quando l’età dei giochi è finita, a rigor di manuale pedagogico. In realtà, dopo l’infanzia si gioca ancora, ma con altri giocattoli. C’è chi passa la vita a deprecarlo. Montherlant invece diceva: «Mai vorrei conoscere chi non abbia più niente del bambino che è stato».
Sotto la patina sempre più sottile del monoteismo, esiste un diffuso animismo indo-europeo, che dà un’identità non solo ai giocattoli, ma anche alle biciclette, alle motociclette, alle auto. Sono le metamorfosi degli animali domestici. Solo chi li produce e li smercia riesce a considerarli un aggregato di plastica, gomma e metallo. L’impronta della Pixar che si è impressa sul marchio Disney ha tenuto conto che i tempi avevano reso il pubblico sempre meno rurale e sempre più urbano. Ma che le sue esigenze di tenerezze non erano calate, anzi.
E veniamo al film, che comincia nel momento della svolta nella vita di uno dei personaggi della serie, quello che abbiamo visto come comprimario ma anche come punto di riferimento: il piccolo Andy non è più piccolo e sta per partire per l’università, dove lo seguirà solo il decano dei suoi giocattoli, Woody, pupazzo vestito da cow-boy. E Woody cerca di rassicurare gli altri pupazzi, da tempo relegati in una cesta, da dove rischiano di uscire diretti nella pattumiera e poi nell’inceneritore/inferno, come si vede in una delle scene più suggestive della pellicola.

Torna dunque il tema dell’oblio e dell’abbandono, tipico anche dei due Toy Story precedenti. Ma Unkrich e Lasseter sanno davvero continuare una storia, non soltanto ripeterla con maggiore abilità. Bella l’intuizione di dare come terra d’esilio per i giocattoli in ambasce un asilo infantile, dove, sotto il nome rassicurante, vige la violenza: quella dei bambini più piccoli, per i quali il miglior gioco coi giocattoli è romperli. E qui chiunque ricordi l’infanzia si sentirà criminale non contro l’umanità, ma contro la giocattolità…

Quanto ai bambini cresciuti, che accompagneranno quelli non cresciuti a vedere Toy Story 3 i bambini non cresciuti, coglieranno la critica sociale che anima sempre il cinema di Lasseter. Tutti i giocattoli escono feriti dal fatto che Andy non passa più il suo tempo con loro, ma qualcuno non ha superato il trauma inevitabile perché ha subìto qualcosa di peggio. Un oblio più precoce, casuale, dunque più amaro, maturando un rancore inestinguibile: è il caso dell’orso di peluche, dimenticato in un prato di campagna dalla sua bambina/padrona e diventato arcigno guardiano dei giocattoli rinchiusi nell’asilo. È fra chi ha patito che vengono reclutati quelli che vogliono far patire gli altri, gli zelanti ingranaggi del sistema di sfruttamento che si è appieno ricostituito agli inizi del XXI secolo, quasi come lo era agli inizi del XIX.

Se negli anni successivi alla crisi del 1929 Walt Disney aveva ricalcato lo Scrooge di Charles Dickens nel personaggio di Paperone, dopo la crisi del 2008 John Lasseter segue - inconsapevolmente? - le tracce di Hector Malot (Senza famiglia) e di Victor Hugo (I miserabili). Lasseter è dunque il più inatteso continuatore di Marx? Visto il suo ormai notevole potere economico, è semmai il più originale continuatore dell’industriale Engels…

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