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Guerra nei Territori, 23 morti e decine di feriti

Combattimenti strada per strada a Beit Lahiya. Colpito a morte un tenente dell’esercito ebraico

Gian Micalessin

PerBeit Lahiya doveva essere la prima estate in libertà, senza esercito e senza coloni israeliani. Invece è l’estate del sangue, della morte, della guerra. Cominciò con l’ecatombe di un mese fa tra una spiaggia e il mare. Da allora non c’è più stata pace. La giornata più funesta degli ultimi due anni, segnata dalla morte di 22 palestinesi e di un tenente israeliano, inizia prima dell’alba, quando uno squadrone di carri armati israeliani si staglia tra le macerie di Dugitm Nitzanit e Alei Sinai. Sono una quindicina di Merkhava seguiti dai fanti della brigata Golani. Sono i veterani della Striscia, mandati a ridisegnare una zona cuscinetto e a dare la caccia ai lanciatori di missili Qassam che da martedì tengono sotto tiro la città di Ashkelon e 200mila cittadini israeliani.
Ma l’operazione Pioggia d’Estate scatenata da Israele nella Striscia di Gaza per garantire la propria sicurezza, far cessare il lancio dei missili Qassam e liberare il soldato Shalit rapito da Hamas, non piace al ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema. «C’è una sproporzione nell’uso della forza: noi abbiamo il diritto e il dovere di dire che l’uso della forza in questo caso è sproporzionato», ha detto ieri sera D’Alema in un’intervista pubblica alla Festa dell’Unità a Roma. «Non si può pensare che per salvare un ostaggio ci si imbarchi in un’operazione che porta all’uccisione di decine di persone», ha aggiunto il ministro degli Esteri.
Il nodo cruciale dell’operazione israeliana è Beit Lahiya, un intrico di cemento e rabbia dove i militanti sono in agguato. Per andare a prenderli Tsahal deve entrare nella tana del lupo, combattere strada per strada. Come a Jenin quattro anni fa. I carri armati avanzano verso il centro abitato, le kefieh nere sbucano dai vicoli, puntano i lanciarazzi, sparano a cingoli e torrette. Un carro armato viene colpito. La punizione è in agguato nel cielo. Lassù gli Apache e i predator senza pilota aspettano soltanto la loro preda per annientarla.
I tank fanno da scudo, i blindati scaricano la truppa, le forze speciali occupano gli edifici più alti, sequestrano appartamenti, evacuano interi edifici, costringono alla fuga folle di civili palestinesi atterriti. Ora l’assedio può cominciare. Si spara da ogni angolo. I militanti si muovono a occhi chiusi, sbucano da ogni dove, disseminano i passaggi di trappole esplosive, riescono persino a lanciare un paio di missili Qassam verso i territori israeliani. Gli israeliani sfruttano la schiacciante superiorità militare. Il sangue incomincia a scorrere nel primo pomeriggio. Due guerriglieri di Hamas puntano il loro Rpg anticarro, fanno fuoco, mancano il bersaglio, si attardano. Una granata d’artiglieria li fulmina sul posto. Sono i primi due morti di Beit Lahiya. Solo una porzione del massacro che a fine giornata conterà anche una cinquantina di feriti, tra cui almeno 15 bambini.
Il primo caduto israeliano è un tenente colpito a morte a metà mattina nel quartiere di Atatara, all’entrata di Beit Lahiya. È al comando di una pattuglia della Golani inchiodata dal fuoco dei Comitati di resistenza popolare dentro una casa. Due ore prima, sempre lì, sono stati colpiti altri due soldati, subito evacuati in elicottero. Il tenente 21enne è ferito alla testa, i suoi compagni sono bloccati dal fuoco. Quando un’ora dopo riescono a portarlo su un elicottero è troppo tardi.
Nel primo pomeriggio si combatte dentro la città. Dal suo nascondiglio a Gaza City, Saed Siyam, ministro degli Interni di Hamas, braccato dagli israeliani, ordina a tutte le forze di sicurezza palestinesi di «sparare sui soldati», invoca «il dovere morale e religioso di resistere all’aggressione sionista».
A Beit Lahiya, intorno agli armati con la kefiah, è un formicolio di famiglie in fuga, curiosi, ragazzini attratti dal fascino sinistro della guerra. La macchina da guerra israeliana ora non risparmia nessuno. Un missile di elicottero esplode tra la folla di guerrieri e civili, fa una carneficina. Tra i morti c’è almeno un civile, un’altra trentina sono feriti. Altri sei tra militanti e civili cadono nel corso di combattimenti o incursioni aeree in altre parti della Striscia di Gaza. Ieri sera un altro raid e nuovi morti.
Il problema ora è capire quanto durerà l’offensiva israeliana nel nord. Generali e politici continuano a giurare di non voler restare a lungo. «Non vogliamo affondare nelle paludi di Gaza, ma entreremo in ogni zona necessaria per mettere a segno la nostra missione», spiega senza chiarire troppo il ministro della Difesa Amir Peretz. «Vogliamo solo impedire il lancio di missili sulle nostre città», gli fa eco il compagno di partito e di governo Benjamin Ben Eliezer. Nessuno spiega come faranno a evitare i lanci se riporteranno a casa i soldati della Golani.


E mentre per un giorno tutti dimenticano il caporale ostaggio dei gruppi armati nel sud della Striscia, i giornali israeliani evocano lo spettro di quella fascia di sicurezza nel sud del Libano, nata come temporanea e durata per 18 sanguinosi, interminabili anni.

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