Un anno fa sembrava una missione impossibile: il sistema finanziario mondiale era sull'orlo del fallimento, mentre l'economia mondiale, trascinata da quella americana, galoppava verso la recessione più pesante degli ultimi 70 anni. Oggi la situazione appare decisamente migliore: il «credit crunch» è stato evitato e la crisi, benché pesante, non è paragonabile a quella del '29. «Il peggio è passato», proclamano gli economisti. Nel novembre del 2009 non ci sperava nessuno. Bravo Obama, dunque.
Eppure il bilancio del suo primo anno non è del tutto positivo. Anzi. Il presidente degli Stati Uniti ha sì salvato il paziente da morte quasi certa, ma ricorrendo a cure pesantissime e senza riuscire a estirpare il male che, come un tumore, rischia di riemergere in futuro. Vediamo perché.
Innanzitutto, i dati: il salvataggio dell'economia Usa è avvenuto a un costo esorbitante, tutto a carico dello Stato. Il deficit pubblico galoppa a due cifre, mentre il debito, che nel 2008 era pari al 70% del Pil, è salito al 90,4%, pari a un aumento di venti punti percentuali in dodici mesi e con la prospettiva di salire al 101% nel 2011. Sono livelli quasi pari a quelli italiani, ma l'America è la prima economia mondiale e i suoi cittadini, contrariamente a noi, risparmiano pochissimo; dunque circa metà del suo colossale debito deve essere sottoscritto da investitori stranieri. Quali? Innanzitutto cinesi. Male, perché Washington è sempre più dipendente da Pechino.
E qui giunge il secondo punto dolente: il dollaro. Come può la moneta di un Paese in rosso per 13mila miliardi di dollari rimanere la valuta di riferimento mondiale? La risposta è semplice: non può. Questo 2009 rischia di essere ricordato come il primo di un ridimensionamento strutturale del dollaro, che in un futuro non lontano appare destinato a perdere il proprio ruolo di moneta di scambio e di riserva, come accaduto alla sterlina nel dopoguerra.
Terzo, la recessione. Nell'ultimo trimestre il Pil americano è salito a sorpresa del 3,5%, ma grazie soprattutto ai colossi incentivi pubblici varati da Obama, che stanno finendo. Una bella iniezione di cortisone, e poi? Il paziente resta piuttosto debole. La disoccupazione ha toccato il 9,8% e potrebbe arrivare al 12%, il mercato immobiliare è asfittico, l'economia privata (quella vera, non drogata dallo Stato) resta anemica. C'è un solo settore che va benissimo: quello finanziario. Obama aveva promesso il cambiamento e la fine dello strapotere delle lobby soprattutto bancarie. È accaduto esattamente il contrario. Il presidente capisce poco di finanza, per sua stessa ammissione, e ha nominato Timothy Geithner ministro del Tesoro, a Larry Summers superconsigliere economico, confermando Ben Bernanke alla guida della Federal Reserve, ovvero si è affidato a tre economisti espressione del mondo che Obama voleva combattere e che infatti hanno fatto gli interessi di Wall Street. Le banche Usa, dopo aver incassato 700 miliardi di dollari in sovvenzioni statali, oggi sono più forti e potenti di prima. Nonostante le polemiche sui bonus, i banchieri incasseranno nel 2009 premi per 140 miliardi di dollari, dieci in più rispetto al 2007, mentre le annunciate riforme sono rimaste sulla carta. Finanza creativa, derivati, esposizione al rischio, trasparenza: tutto è rimasto come prima. Obama sembra non avere la competenza, né la personalità per imporsi.
Del suo programma originario è rimasto solo l'impegno a incentivare forme di energia più pulite e un'economia più verde. Troppo poco e con modalità ancora vaghe. La tanto decantata Obamanomics non si vede. Il presidente più che innovare, per ora conserva.
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