Ha salvato i suoi commilitoni "Medaglia d'oro e non so perché"

In Afghanistan è diventato un eroe di guerra: "Sono un soldato ho fatto solo il mio dovere. Oggi la vera impresa è la famiglia"

Ha salvato i suoi commilitoni "Medaglia d'oro e non so perché"

La vallata di Bala Morghab, in Afghanistan, ha poco a che vedere con le pendici dell'Etna. Non ci sono chiese e paesi, non si vede il mare. Soprattutto lì negli anni del massimo impegno militare italiano il nemico si nascondeva dietro ogni angolo. Andrea Adorno nel Catanese, a Belpasso, è nato 38 anni fa. Ma è su una strada sterrata di Bala Morghab che è diventato un eroe di guerra. Il sergente maggiore Adorno ha salvato in battaglia, da solo e ferito, un'intera squadra di commilitoni. Per questo ha ricevuto la Medaglia d'oro al valor militare ed è il primo graduato dell'esercito in vita e in servizio attivo a vantare questo riconoscimento.

Quella dell'eroe di guerra ormai è una figura legata ai libri di storia. Oppure la si immagina dentro un film hollywoodiano. Infatti a scorrere la motivazione con cui nel 2014 Adorno ha ricevuto la medaglia dalle mani dell'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano si ha la sensazione di essere catapultati in un altro secolo. «Nel corso dell'operazione Maashin IV, mirata a disarticolare l'insurrezione afghana, conquistato l'obiettivo, veniva investito con la sua unità da intenso fuoco ostile. Con non comune coraggio e assoluto sprezzo del pericolo, raggiungeva d'iniziativa un appiglio tattico dal quale reagiva con la propria arma all'azione dell'avversario. Avvedutosi che il nemico si apprestava ad investire con il fuoco i militari di un'altra squadra del suo plotone, non esitava a frapporsi tra essi e la minaccia interdicendone l'azione». Non solo: «Seriamente ferito ad una gamba, manteneva stoicamente la posizione garantendo la sicurezza necessaria per la riorganizzazione della sua unità. Fulgido esempio di elette virtù militari».

Ascoltato dalla voce di Adorno però, tutto diventa più reale. Siamo nel luglio del 2010, l'allora caporal maggiore scelto dell'esercito aveva 30 anni. Oggi ricorda ogni dettaglio. Nella regione a nord-est di Herat sono i mesi caldi degli scontri quotidiani tra gruppi di insorti da una parte e soldati italiani, afghani e americani dall'altra. L'obiettivo della coalizione Nato è di creare una «bolla di sicurezza» e conquistare terreno. «Ero di stanza a Herat - comincia Adorno -, ho raggiunto la valle in elicottero con la mia squadra. La missione di quel giorno era effettuare una pattuglia di supporto ai soldati afghani». Il caldo soffocante, la polvere sottile e il pesante equipaggiamento sono routine. Non il fuoco nemico che arriva all'improvviso. «Veniamo sorpresi dagli insurgent - continua il soldato -. Il conflitto a fuoco va a avanti per circa un'ora e mezza. Mi accorgo che una delle nostre unità ha difficoltà a ripiegare e a mettersi al riparo. Mi sposto di lato per poter fare fuoco di copertura e vengo colpito alla coscia destra». Il proiettile di grosso calibro trapassa la gamba da parte a parte, sfiorando l'arteria femorale. Oltre alla lesione causa una grave ustione, per fortuna Adorno non riporterà danni permanenti. «Mi rendo conto di essere ferito, i pensieri sono fulminei. Continuo a fare fuoco finché la squadra in pericolo raggiunge la zona sicura. Alla fine comunico via radio che sono stato colpito e vengo riportato alla base».

Dopo alcuni giorni il rientro in Italia, il ricovero all'ospedale militare del Celio, la lunga convalescenza. «Mia moglie, che era incinta del nostro secondo figlio, è venuta a prendermi e mi ha riportato a casa». Anche dopo la guarigione il desiderio, assecondato dai suoi superiori, è quello di stare per un po' vicino alla famiglia. Il sergente quindi viene trasferito al 62esimo Reggimento fanterie di Catania. Da qualche mese però è tornato al vecchio reparto, il quarto Reggimento alpini paracadutisti «Ranger» di Verona, dove era stato già per nove anni e da dove era partito per le sette missioni all'estero tra Balcani, Iraq, Afghanistan. Nel frattempo gli sta per nascere il terzo figlio maschio.

Adorno torna all'imboscata di nove anni fa. «È difficile spiegare cosa ti passa per la testa in quei momenti. Il sangue, il dolore, la paura... Ma la concentrazione è massima, resta salda grazie all'addestramento che abbiamo ricevuto. Solo così riesci a non perdere il controllo. Il mio stato d'animo era di dedizione al lavoro e ai compagni». Ognuno di loro avrebbe fatto lo stesso? «Ne sono sicuro al cento per cento. È nostro dovere. Infatti la Medaglia d'oro mi ha un po' sorpreso. Certo, è stato un vero onore riceverla. Motivo di orgoglio e commozione». Tale riconoscimento, il massimo in campo militare, di solito viene assegnato alla memoria oppure a soldati e graduati destinati a «ruoli d'onore», non più operativi. Nei panni dell'eroe Adorno non si sente troppo a proprio agio: «Non sono un eroe, sono un soldato. Amo il mio Paese e fare il soldato è il modo in cui lo dimostro. Gli eroi oggi sono coloro che provvedono a una famiglia con uno stipendio misero».

Sono ancora molti i ragazzi che scelgono la divisa per il proprio futuro. Il sergente li incontra spesso, in particolare alle presentazioni dell'autobiografia scritta insieme allo storico militare Gastone Breccia, Nome in codice: Ares (Mondadori, 2017). «Cosa dico a chi vuole arruolarsi nell'esercito? Che il suo è un atto di coraggio, che deve perseverare e non darsi per vinto. Questa è la strada di coloro che intendono dare un contributo agli altri attraverso le istituzioni». Anche se Adorno non vede per forza nella vita dei tre figli le stellette e l'elmetto: «Vorrei solo che fossero realizzati». La missione delle truppe italiane in Afghanistan non è stata solamente aiuto alla popolazione e pattugliamenti di vallate polverose. Come dimostra la storia del sergente Adorno, è stata una guerra combattuta sul campo, dove in tanti sono caduti. E le forze armate Nato sono tuttora sotto attacco.

«Per me è stato giusto andarci - sottolinea l'alpino paracadutista -. Noi soldati eravamo lì a supportare un Paese che ne aveva bisogno». Alcuni hanno riportato indietro le ferite, «ma anche il ricordo del cielo stellato più bello che abbia mai visto».

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