Haiku, il mondo in diciassette sillabe

Bevo la medicina. Anche se stessi bene avrei un guanciale di brina

Haiku, il mondo in diciassette sillabe

Un giorno del 1711, Hirose Inen abbandonò moglie e figli per dedicarsi alla poesia. Che cosa gli era accaduto di tanto sconvolgente? Aveva visto cadere a terra un petalo di prugno per il colpo d’aria causato dalle ali di un uccello. L’episodio (apologo e apologia della poesia), accennato da Akutagawa Ryunosuke nelle Note sparse su Basho, contiene tutto il senso della lirica giapponese. La semplicità delle cose; la forza incoercibile della natura che si manifesta in una foglia che cade; il partecipare dell’uomo all’afflato cosmico che tutto avvolge e governa. Anche Akutagawa, maestro del racconto breve, si dedicò al verseggiare. Lo vediamo passeggiare sul monte Takano: «Le cryptomerie del baratro in montagna/ sono troppo pallide./ Echi» (dove il pallore delle piante amplifica il pallore degli echi, e i colori si confondono con i rumori...). E lo vediamo, nella sua stanza, vergare queste parole sotto il titolo «Disprezzo di me stesso» poco prima di suicidarsi, a 35 anni, nel 1927: «Mi goccia il naso./ Finisce solo/ sulla punta». In italiano, quindici sillabe. In giapponese, diciassette: «mizubana ya/ hana no saki dake/ kurenokoru».
Cinque+sette+cinque: è la formula magica degli haiku. Che sarebbero gli emistichi iniziali (hokku) dei versi incatenati chiamati renga alla cui composizione partecipavano vari autori in una gara poetica. Sarebbero, perché all’inizio del XVI secolo, con Sokan e Moritake, l’haiku si affranca dai vincoli dei renga e assume dignità propria, divenendo un genere nel quale molti, e non soltanto in Giappone, si cimentano.
Lo fecero, per esempio, due autori molto distanti fra loro, se non agli antipodi: Borges e Kerouac. In La cifra, l’argentino, onnivoro gourmet di ogni gusto letterario, omaggia la sensibilità nipponica con «Diciassette haiku» (diciassette moltiplicato per diciassette...) nei quali, tuttavia, avvertiamo più l’accorata tristezza di una milonga («Questa è la mano/ che talvolta toccava/ la tua chioma»), più lo struggente romanticismo («La vasta notte/ non è ora altra cosa/ che un profumo»), più la cifra immaginifica («È un impero/ quella luce che muore/ o una lucciola?») che non la stupita icasticità dei maestri del Sol Levante.
Kerouac, invece, nelle composizioni che punteggiano molte sue opere (riunite due anni fa in Il libro degli haiku, a cura di Regina Weinreich e tradotte da Silvia Rota Sperti per Mondadori) mette a frutto una più approfondita frequentazione con la cultura orientale. E i risultati si vedono. Anche trapiantato nell’America «on the road», l’imprinting dell’haiku funziona, sia che accompagni una corsa in auto («Silos pieni di grano, in attesa/ che la strada/ vada loro incontro»), sia che si crogioli nell’osservazione minima («La seggiola estiva/ si culla da sé/ Nella bufera di neve»), nel rilievo coloristico («Baracca di legno/ grigio screpolato -/ Luce rosa dalla finestra») o addirittura nell’ironia («Il cane ha sbadigliato/ e s’è quasi ingoiato/ Il mio Dharma»).
Del resto anche il grande Basho (1644-1694), che lanciò una volta per tutte l’haiku, era un tipo molto «on the road». Gran parte delle sue poesie nascono durante lunghe peregrinazioni. E nel Taccuino della gerla, diario di un viaggio compiuto fra il 1687 e il 1688, scrive: «Il dio del vagabondaggio mi tolse la pace facendomi impazzire, e l’invito della divinità protettrice dei viandanti mi distrasse da ogni altra cosa». Ovvio che sia lui, Matsuo Munefusa (Basho è uno pseudonimo, deriva dall’albero di banano - basho, appunto - che un allievo gli regalò), dopo alcuni ku (strofe) di renga collettivi, ad aprire la ricca antologia Il grande libro degli haiku curata da Irene Starace (Castelvecchi, pagg. 1518, euro 40). Ben 24 gli autori presenti (una sola donna, Sugita Hisajo), distribuiti fra la seconda metà del Seicento e la fine del Novecento.
Della metrica abbiamo detto. Altro tratto rigorosamente comune è quello del kigo, la parola o espressione posta a indicare la stagione in cui la composizione è ambientata. Così «rana» è un kigo per la primavera, «primo kimono a righe» lo è per l’estate, «crisantemi bianchi» per l’autunno e «neve» per l’inverno. Non di rado si scelgono immagini sinestetiche («Onde increspate/ e ritmo/ del profumo del vento», Basho; «Il sole punta/ sui germogli di paulonia./ Il vento splende», Kawahigashi Hekigodo), oppure autoironiche («Abbandonati/ i sentimenti malevoli,/ sbuccio fagioli», Ozaki Hosai), si catturano particolari rivelatori («Una raccoglitrice di riso./ La frangia/ tra le mani infangate», Murakami Kijo; «Una goccia di rugiada/ come un diamante/ su una pietra», Kawabata Bosha), si medita sulla spiritualità («Notte di ghiaccio./ Tengo stretta nel cuore/ l’aspirazione alla Buddhità», Kawabata Bosha; «Sepoltura di un contadino./ Passiamo tra i fiori di rapa,/ piantati da lui stesso», Kato Shuson; «Anche dopo la mia morte/ ci sarà questo cielo azzurro/ nelle notti fredde?», Kato Shuson). Il tutto con uno sguardo indagatore e partecipe che si fissa sul particolare («Vette azzurre d’inverno,/ nelle pupille di un coniglio/ che si è svegliato», Kato Shuson; «Con uno scricchiolio/ la mantide si mangia/ la testa dell’ape», Yamaguchi Seishi) o sul paesaggio («Con lo yukata che portavo/ quando ho lasciato il bagno/ ho visto un airone bianco volare, volare...», Ogiwara Seisensui; «La sfera di fuoco del sole/ è caduta, lasciandosi dietro/ risaie gelate», Saito Sanki).


L’haiku, insomma, più che uno stile poetico è una filosofia o un sistema di catalogazione dei sentimenti. Nulla può fermare il flusso che le stagioni rinnovellano perpetuamente. Ecco l’ultimo haiku di Basho: «Mi sono ammalato in viaggio./ I miei sogni vagano/ per i campi spogli».

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