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«Hanno un’anima, ecco perché li liberiamo»

Domizia Carafoli

Certamente non se lo sarebbe immaginato, il nobile Giustino Valmarana, quando fece decorare il muro della fastosa villa che aveva acquistato nel 1720 in quel di Vicenza con diciassette nani di pietra scolpita. Mica se lo poteva immaginare che un giorno sarebbe nato un «Fronte di liberazione dei nani da giardino», capace - Dio non voglia - di attentare alle sue curiose sculture. Certo al visitatore odierno che transiti da San Bastian di Vicenza dove sorge la villa (cara alla storia dell’arte soprattutto per le smaglianti decorazioni pittoriche di Giambattista e Giandomenico Tiepolo) quei bassi e deformi «custodi» sul muro di cinta, un certo strano effetto lo fanno. E non a caso intorno a loro è nata la leggenda che fossero stati fatti scolpire dal padrone di casa per alleviare i problemi psicologici di una figlia - amatissima ma nana - circondandola di creature piccole e deformi come lei. Ma probabilmente le sculture rispondono semplicemente a quel gusto per il bizzarro e il «maraviglioso» che permea la cultura non soltanto barocca, se già nel Cinquecento un innocente aborigeno dell’isola di Tenerife, dal corpo e dal volto coperti di fitta peluria (si chiamava don Pedro Gonzales), fu conteso dai regnanti e divenne ricco e famoso proprio per la sua anomalia.
Che questo aspetto un po’ inquietante dell’iconografia dei nani si sia travasato nei nanetti di gesso colorato che fino a ieri popolavano pacifici i giardinetti borghesi di mezza Europa e da una decina d’anni a questa parte sono diventati il tormentone inflitto dai vari Fronti e Movimenti per la loro Liberazione? Certamente i nani hanno percorso una strada verso il basso: da sculture di pregio a oggetti di serie, generalmente considerati con una buona dose di sufficienza. I nanetti in cerchio nel giardino equivalgono al pozzo finto e all’orologio a cucù.
Almeno equivalevano finché lo snobismo di ultima generazione (quello che sulla scia di Andy Warhol ha scoperto che «cattivo gusto è bello», soprattutto se ribattezzato «kitsch») li ha trasformati in costose icone. Ci è voluto quel geniaccio ironico di Philip Starck che ne ha prodotti due per la Kartell, in resina colorata e ne ha fatto una coppia di sgabelli-tavolini chiamandoli Attila e Napoleone. E i nani da giardino sono risaliti nella scala sociale.
Questo non li ha salvati dai mattocchi che vanno in giro di notte a scalzare quelli di gesso dalle aiuole rovinando anche i tulipani e le begonie. Il Fronte di liberazione è nato in Francia nel 1995 facendo rapidamente proseliti in Austria, Germania e Belgio. Sostiene che i nani hanno un’anima che va liberata dall’involucro, in perfetto accordo con il Malag (Movimento autonomo per la Liberazione delle anime da Giardino), sul cui sito internet si sentono suoni inquietanti a metà tra uno sbuffo e un brontolio, ed esibiscono il motto: «Non chiederti cosa un nano può fare per te, piuttosto cosa puoi fare tu per un nano».

Più goliardico il Comitato per la liberazione dei nani fondato un gruppo di bontemponi romagnoli che vanno in giro cantando l’inno: «Tu prova a liberare il nano/ il nano da giardino schiavo». Ma attenzione al Kang (Klub anti Nani da Giardino) fondato invece nel 2000 da cattivissimi fiorentini che si prefiggono la distruzione totale di tutti i nanetti di gesso. Una «soluzione finale» da mettere i brividi.

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