da Milano
Divampa in palcoscenico alla Scala un fuoco rosso abbagliante, più rosso non si può. E non si può più fuoco di così. Sta alla fine dellopera Il prigioniero di Dallapiccola, e vi arde un poveretto che da quaranta minuti, presagendolo, si lamentava o, illuso da certi segni crudelmente disposti, tremava di speranza. Prima un enorme ritratto di Filippo II di Spagna, incubo della disperata madre del prigioniero, si era trasformato a vista nel ritratto dun gufo, in cella si era rotolato il poveretto e fuori s'eran dipanati cortei, nello spazio predisposto dallo scenografo Wögerbauer. La musica testimoniava la profonda coscienza di Luigi Dallapiccola compositore e librettista, che dimostra a quale tensione espressiva lacerante può portare la combinazione delle note nella serie dodecafonica; ma anche con quale immobilità. Lopera nel 1950 assumeva una sacra carica laica d'amore per la libertà, e adesso la studiamo come un importante reperto d'un secolo lontano.
Anche Il castello del Duca Barbablu è lontano. Anche qui un dopoguerra, siamo nel 1918, e un'angoscia programmata. Judit, che ama Barbablu, lo raggiunge nel suo castello, e il castello buio piange lacrime e sangue, e ha sette porte serrate. Judit le vuole aprire, e vedrà armi e strumenti di tortura, gioielli e un lago immobile, e alla fine dovrà unirsi alle donne precedenti amate dal misterioso amante. La partitura del grande Bartók fa tutto per rendere le immagini suoni, con ricchezza di timbri e guizzi e brontolii, come una stupefacente colonna sonora. La regìa di Peter Stein muove pareti e porte di geometrica astrattezza e vividi colori: splendidi i costumi di Anna Maria Heinrich. Tutto è dosatamente arcaico, fiabesco e psicanalitico.
Si va alla Scala per delirare di passione e anche per imparare con pazienza. In questi casi, si gode quello in cui ci si può riconoscere, e si applaude con grande compiacimento culturale.
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