Il 7 marzo 1950, da Big Sur, dove, malgrado i cronici problemi economici, era riuscito a costruire la sua prima casa, Henry Miller scrisse allamico Lawrence Durrell, allora relegato nella sede diplomatica inglese della plumbea Belgrado: «Caro Larry, rimando sempre di scriverti perché mi sembra di mandarti solo delle brevi note. È così difficile trovare il tempo per una vera lettera. Dal 17 gennaio lavoro febbrilmente a un nuovo libro che parla di libri, dellesperienza che ho avuto con loro. È affascinante! Dio solo sa dove e quando finirà...». Stava vivendo un periodo fecondo in cui, forse, prendeva più consapevolezza di sé. Quando, allo scoppio della guerra, era tornato nella detestata America, per lui culla di una civilization foriera di mostri, forse non si rendeva conto di rappresentare, con la sua affermazione dilatata dellio, con la sua veemenza che ricorda il grido libertario e «barbarico» di Walt Whitman, una voce che più americana non avrebbe potuto essere. Contro lAmerica, attraversata furiosamente da un capo allaltro dopo il suo rientro in patria, aveva scritto il caustico Incubo ad aria condizionata (1945). Poi qualcosa era accaduto: aveva smesso, un po alla volta, di considerarsi un «espatriato». Ora viveva sulla costa di Big Sur con la giovane terza moglie; in Francia, venivano stampati (in inglese) e contrabbandati Tropico del cancro e Tropico del capricorno; i suoi acquerelli assai richiesti; le sue proposte editoriali subito accettate.
Stava lavorando alla trilogia intitolata Crocefissione in rosa (Sexus, Plexus, Nexus), di cui nel 49 era uscito solo il primo volume, quando, su consiglio dellamico Lawrence Powell, bibliotecario dellUccla, si buttò a scrivere I libri della mia vita, che sarebbe stato pubblicato nel 1952 dalleditore New Directions, e che viene proposto per la prima volta in italiano da Mondadori (traduzione di Bruno Fonzi, pagg. 456, euro 9,80). Questo lavoro, rimuginoso, caotico, privo di qualsiasi sistematicità critica, assolutamente fresco e spontaneo, pare quasi un esame di coscienza, un bilancio di quella «esperienza vitale» rappresentata dallincontro con il libro. Certo, egli non si smentisce. Pur elencando un sacco di libri importanti che ha intenzione di leggere (dalla Summa, ohibò, di Tommaso dAquino, alle Memorie di Casanova, dal Flaubert dellEducazione sentimentale al Fielding di Tom Jones e al James della Coppa doro...), si dice persuaso che «bisognerebbe leggere sempre di meno, e non sempre di più». «Chi cerca la conoscenza o la saggezza, farebbe meglio andare direttamente alla fonte», che è la vita stessa, non la vita che conosciamo oggi, ma quella «di cui parla D.H. Lawrence in Luoghi etruschi».
Leggendo queste sue riflessioni a ruota libera, può far specie incontrare, accanto a giudizi acuti, improvvise idiosincrasie umorali, devozioni mal riposte. Se è comprensibile che egli abbia una sterminata ammirazione per lavventuroso Blaise Cendrars, e ancor più per Jean Giono («se io dovessi scegliere tra la Francia e Giono, sceglierei Giono...»), si resta un po perplessi di fronte al suo entusiasmo per autori come Sir Henry Rider Haggard, lautore delle Miniere di re Salomone, o come G.A. Henty, un giornalista-scrittore, che nessuna storia letteraria ricorda.
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