Maria Vittoria Cascino
Letto d'un fiato è pugno nello stomaco. T'agguanta senza pietà, quella che loro non hanno avuto. Ti costringe ad ascoltare anche se non hai gli anelli ai polsi. Storie vere di uomini e donne che lo «Sconosciuto 1945» (Sperling&Kupfer, pagg. 476, euro 18) lo stanno cercando ancora adesso. Che Giampaolo Pansa ha raccolto nel seguito de «Il sangue dei vinti». Senza enfasi, perché «già così sono terribili». E come fai a tapparti le orecchie. Nessun grido. Solo la lucidità di chi le vendette dopo il 25 aprile se l’è cristallizzate dentro e la targhetta di piombo legata attorno ai cadaveri, con su scritto «sconosciuto 1945», non la nasconde più.
Pansa, perché le ha messe insieme queste storie?
«Perché duemila lettere sono un invito potente e pacato, anche se angosciato. Nel 2003 è uscito “Il sangue dei vinti”. Avrei potuto pubblicare subito il seguito. Ho preferito aspettare. Poi ho pensato che se prima avevano parlato i morti, adesso era giusto sentire i vivi. Ma non c’è nessuna polemica».
Eppure da sinistra è stata attaccata.
«I cari amici e compagni mi hanno rimproverato d’esser andato a parlare con queste persone che hanno avuto parenti uccisi. E io rispondo che dovrebbero propormi come senatore a vita. Perché nessuno li ha mai ascoltati. Nessun giornalista fascista li ha mai intervistati. Io l’ho fatto. E l’avrei fatto comunque, anche senza le lettere. Mi sarei posto il problema. Non ho mai tarato le mie amicizie sull’appartenenza politica. Ho la mia stella polare che mi guida e sono le persone a contare».
Vuole dire che la stella le aveva già indicato il cammino?
«Ripeto, anche senza lettere avrei saputo dove andare. Carla Sanguineti, genovese, protagonista di uno dei più bei capitoli del libro, la conoscevo già. Sapevo che Giuseppe Solaro, il federale fascista impiccato a Torino il 30 aprile 45, aveva due figlie ed ero certo che mi avrebbero spalancatole loro porte».
Cosa hanno in comune queste persone?
«La stessa condizione: vivevano in un momento storico in cui erano i reprobi. Tutte persone straziate e sole. C’è un capitolo fatto di lettere che rimandano ad un unico tema: la scomparsa di fascisti repubblicani nelle giornate successive al 25 aprile. La scomparsa totale dove si perde ogni traccia di una persona e del suo corpo. E qui oltre a percepire l’angoscia di non sapere la fine che hanno fatto, senti che sono soli».
Quanta Liguria c’è nel libro?
«Ho ricevuto moltissime lettere da Genova e dalla Liguria. Del resto l’ottima inchiesta portata avanti dal Giornale sulla scorta del sangue dei vinti, ha tirato fuori spunti interessanti e storie che in parte conoscevo già. Poi ho deciso di proseguire su un altro binario. Il libro che consegnai all’editore aveva cento pagine in più, e molte delle testimonianze arrivavano proprio da lì. Ho dovuto tagliarne alcune, ma ne resta una presenza significativa. E mi riferisco alla colonia di Rovegno, alla corriera di Cadibona. Alla coppia di Masone soppressa in strada di notte nella ricostruzione del nipote Vittorio Baretto. Al mistero di Borghetto Vara, dove il figlio da anni tenta di scoprire chi abbia ucciso suo padre e dove sia stato sepolto il corpo. E poi c’è il capitolo narrato da Carla Sanguineti, scrittrice e scultrice, femminista. Che racconta la storia di suo padre Carlo, industriale, iscritto al partito fascista repubblicano, che, per l’ordine scellerato di militarizzare il partito imposto da Pavolini, era diventato ufficiale della Brigata Nera “Silvio Parodi” a Chiavari. Anche lui sparito nel nulla».
Carla Sanguineti parla del bisogno di conciliazione che esiste dopo le stragi, del sentimento di colpa e pietà dei vincitori. Dov’era e soprattutto dov’è tutto questo?
«È la faziosità delle parti politiche. Ci sono due schieramenti opposti, ma c’è la grande massa degli italiani che stanno a guardare e vogliono sapere la storia intera. Nelle due minoranze ci sono parti che tentano di annientarsi e non è possibile dopo sessant’anni guardarsi ancora in cagnesco. Adesso che c’è bisogno di trovare l’unità del Paese, è semplicemente grottesco».
Come si fa a reggere l’angoscia, la frustrazione, lo strazio che queste vite buttano fuori?
«Non sono né un cinico, né un insensibile. Ho cercato d’essere professionale, anche se sono rimasto quel ragazzo che ero. Di qualcuno dei testimoni sono diventato amico. Come di Giovanna Caprino Picciau, figlia di Sebastiano Caprino, giornalista fascista ucciso a Milano nel maggio ’45. Mi scrisse che ne “il sangue dei vinti” mi ero dimenticato di lei. Avevo trascritto il ricordo della nipote di Enzo Pezzato, direttore di Repubblica Fascista ucciso con Caprino, e citavo un solo figlio del giornalista. Invece c’era anche lei. Sono andato a trovarla e mi ha mostrato la targhetta rettangolare di piombo con su scritto “Sconosciuto 1945”. Era legata attorno al cadavere del padre riconosciuto per via dell’abito in una fossa comune. Mi sono reso conto di ricevere regali terribili. Soffrivano come se fosse accaduto tutto il giorno prima. Tanti hanno pianto quel patimento imprigionato dal silenzio».
Come la storia del calzolaio di Castelnuovo Scrivia.
«Quella mi ha fatto rabbrividire. Un umile calzolaio che finisce arruolato nelle Brigate nere. Sparisce anche lui nel nulla. E il nipote, per attenuare il dolore della madre, acquista un loculo nel cimitero di Tortona, ci mette una lapide con la foto del calzolaio, ma quella tomba è vuota. Qui c’è tutto lo strazio di non avere un luogo dove andare a piangere».
Perché ci ha messo tanto a scrivere di loro?
«È stata una lenta marcia d’avvicinamento.
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