Roma - Ci sono certe giornate, in questa stagione di tramontane gentili, in cui se si volgono gli occhi al cielo, sulla verticale di piazza del Popolo, sembra di essere a Kabul, in Afghanistan. «O a San José, California, dove vivo», aggiunge sorridendo l’uomo con la faccia da ragazzo che mi sta di fronte. Stesso nitore spavaldo, stessa euforica elettricità nell’aria, conviene. L’uomo si chiama Khaled. Khaled Hosseini, lo scrittore. Quello de Il Cacciatore di aquiloni (edito da Piemme).
Il romanzo, il lettore saprà, ha venduto uno sterminio di copie. Ora, nelle sale, è arrivato anche il film. L’altro ieri, vigilia di quest’intervista, sono andato a vederlo all’Odeon, a Milano, alla proiezione delle 17. Nonne e nipoti, all’uscita, avevano facce commosse, di chi si è sentito parlare al cuore. Bella la storia, fascinosa l’ambientazione, nessuno svolazzo o licenza poetica da parte dello sceneggiatore e del regista, Norman Forster. Chi non ha letto il libro, può dunque andare a farselo raccontare al cinema.
Quando gli dico delle facce commosse al cinema, Khaled Hosseini ride, compiaciuto. Sono passate da poco le 11. È un buon momento. Fra un paio d’ore, quando anche le televisioni avranno avuto il loro osso da spolpare, Khaled avrà meno voglia di conversare. Avanti, dunque.
«Il film è buono, ed è fedele al libro» dice Hosseini. «Ma ciò che più mi rende felice è che essendo il cinema un mezzo di comunicazione universale, milioni di persone potranno avere un punto di vista, una prospettiva diversa riguardo all’Afghanistan. C’è un altro aspetto che mi piace sottolineare. Questa è la prima volta che una grande produzione statunitense accetta di parlare di Afghanistan con attori afghani e in lingua afghana (il che non vale per l’Italia, visto che il film è doppiato, ndr). Per uno come me, che è nato e cresciuto a Kabul, questo non può non essere motivo di orgoglio».
Straordinaria è la recitazione dei bambini, soprattutto.
«Sì, sono stati bravissimi. E badi: nessuno dei due aveva mai messo piede su un set. Non solo. Ha presente la scena in cui sono al cinema, e guardano un film western? Quella scena è stata girata in Cina. Beh, io c’ero, ed è stato uno spasso, perché nessuno dei due bambini, in vita loro, era mai stato al cinema».
Qualcuno osserverà che c’è più Hollywood che Afghanistan, nella trasposizione cinematografica...
«Ok. È un film di Hollywood fatto a Hollywood. Ma se guarda al modo in cui quest’area del Medio Oriente è raccontata converrà che il film è unico nel suo genere. Di solito, il Medio Oriente evoca estremismo, violenza, terrorismo. Consideri un altro aspetto. Questa è la prima volta in cui il protagonista non è un occidentale che incontra la popolazione locale, ma è la gente di questa regione che racconta se stessa. Ancora: questa è la prima volta in cui il cast è composto esclusivamente di musulmani. Ma qui la religione non è strumentale, è solo incidentale rispetto alla narrazione degli eventi. Dunque si potrà dire che è un film di Hollywood, ma di un’Hollywood vecchio stile».
Hosseini è nato a Kabul nel 1965, figlio di un diplomatico e di un’insegnante. Nel 1980, dopo l’invasione sovietica, la famiglia Hosseini ottenne asilo politico in Usa. In California Khaled ha studiato, è diventato medico, infine scrittore. L’Afghanistan di Khaled, quel mondo arcaico, vagheggiato, rimpianto, non esiste più. È stato cancellato, vetrioleggiato due volte, anzi tre. Prima dai russi, poi dalla guerra tra le fazioni di Hekmatyar e di Massud, infine dalla restaurazione talebana. Khaled non si fa illusioni.
«Riportare l’Afghanistan a quello che era trent’anni fa credo sia estremamente difficile. Oggi, la grande sfida è quella di ricreare uno Stato che funzioni. Ma per rivederlo com’era, anche solo vagamente, dopo le guerre e le devastazioni, ci vorrà molta pazienza. Non basteranno gli anni. Ci vorranno decenni».
In una scena del film si vede un soldato russo agitare un mitra, con l’aria arrogante del conquistatore, nei confronti di un pugno di fuggiaschi. I russi portavano il comunismo. Gli americani portano la democrazia. Due mondi ideologici contrapposti. A entrambi, tuttavia, gli afghani hanno risposto impugnando le armi, o nella migliore delle ipotesi con una sostanziale ostilità del cuore.
«L’importazione del comunismo fu un completo, assoluto disastro. Un’ideologia che tradiva, sconvolgendoli, i valori tradizionali afghani. Ma anche l’idea di veicolare la democrazia, come si farebbe con una siringa nel corpo di un paziente, mi pare ardua. L’Afghanistan non diventerà mai la Francia, o la Germania, per intenderci. Penso invece sia possibile veder crescere una società ragionevolmente aperta, dove la gente possa far sentire la propria voce. Una società capace di contemperare i valori della tradizione con quelli di una certa modernità. Quanto agli americani: aprire le porte degli afghani a calci, e arrestare la gente, non paga. Ci vuole rispetto. Ma è anche necessario dimostrare che la guerra che si combatte al sud, contro i talebani, è una guerra che si combatte anche per il cuore e le menti del popolo, talebani compresi. E che la prospettiva è quella di un Paese pacificato, dove ci saranno opportunità economiche per tutti, insieme con i diritti fondamentali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Ma ci vuole anche un esercito e forze di polizia capaci, e un coerente programma contro il traffico di droga».
Nel film, come nel romanzo, molta attenzione è dedicata al mondo della tradizione, a valori che l’Occidente ha perduto, privilegiando l’esibizionismo, la spregiudicatezza, la disinvoltura, fino all’ostentazione grottesca, e spesso oltraggiosa, del corpo femminile.
«Questo è il cuore del problema. Come conciliare i valori di una nazione tribale con quelli di una modernità condivisibile. Gli eccessi dell’Occidente non verranno mai accettati, questo è sicuro. Ma i diritti delle donne vanno assolutamente tutelati. La tradizione, soprattutto nelle regioni più lontane da Kabul, non riserva alcun ruolo alle donne nella vita pubblica. E questo è inaccettabile. Ancor oggi accade che bambine di 12 anni vengano promesse in matrimonio a uomini molto più anziani di loro. La chiamano tradizione. Ora il governo ha varato una legge in base alla quale una ragazza non può andare sposa prima dei 16 anni.
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