«I cinesi volevano che clonassi anche la basilica di San Pietro»

Non contenti d’essersi fatti la loro Chiesa nazionale, nominati i loro vescovi e ordinati i loro preti, i cinesi hanno deciso d’aggirare le insormontabili difficoltà nel ripristino delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede, rotte 55 anni fa da Mao Tse-tung, ricorrendo ancora una volta all’arte nella quale eccellono: la clonazione. E che ci vorrà mai a costruirsi un Vaticano in casa? Immaginate la faccia dell’architetto Massimo Roj quando il capo dell’Urban bureau gli ha strappato dalle mani il progetto dell’Italian exhibition center di Tianjin, ci ha schizzato sopra in quattro e quattr’otto il Cupolone e lo ha restituito al nostro allibito connazionale dicendogli: «È un edificio italiano? Allora dev’essere in stile italiano! E che cosa c’è di più italiano di Michelangelo?».
Sono seguiti attimi di gelo, nel corso dei quali persino il burocrate deve aver realizzato che l’ardito compromesso tra la basilica di San Pietro e un Carrefour poteva prestarsi a qualche equivoco interpretativo. Ha perciò perfezionato seduta stante la variante trasformando il loggiato d’ingresso nel colonnato del Bernini. Infine, notata la crescente perplessità del progettista per lo scostamento dai piani originari, ha tagliato la testa al toro: qualche sfriso di matita e il colonnato s’è tramutato nelle arcate del Colosseo. «In Cina funziona così: se sei sfortunato, ti stravolgono il progetto e ordinano al costruttore di eseguire le modifiche apportate; se sei fortunato, riesci a contenere il danno lavorando a quattro mani con loro», ride adesso l’architetto Roj, che dopo un’estenuante trattativa ha convinto i fantasiosi funzionari statali a rinunciare alle loro suggestioni romane.
Amministratore delegato di Progetto Cmr, la più importante azienda italiana di progettazione dei luoghi di lavoro, questo professionista milanese di 46 anni finora s’era sempre accontentato di lavorare per colossi del calibro di Coca-Cola, Bayer, Generali, Shell, Nokia, Cisco, Alitalia, Mobil Oil, Canon, Apple, Autogrill, Walt Disney, Gillette, Motorola, Dhl, Lazard, Ina, Warner Bros, Siemens, senza trascurare committenti istituzionali come la Presidenza del Consiglio, la Camera dei deputati, la Rai, le Poste, le Ferrovie dello Stato. Nel 2002 ha avuto la folgorazione sulla via di Pechino, che una decina di giorni fa, all’European property italian conference di Roma, gli è valsa l’appellativo di Massimo Polo, dall’incrocio del suo nome di battesimo col cognome dell’intrepido viaggiatore veneziano.
Oggi l’architetto Roj è fra i progettisti stranieri più attivi in Cina. Ci vive dieci giorni al mese, unico italiano a operare in tutte le province e ad aver aperto uffici di progettazione con una ventina di dipendenti a Pechino e a Tianjin, le aree di maggior sviluppo urbanistico, dove fino ai primi Anni 50 era ancora riconoscibile la trama viaria di epoca Ming (1368-1644). Quasi un milione di metri quadrati, fra lavori completati, cantieri aperti e appalti in corso, recano la sua firma: l’hotel Crowne Plaza (350 camere) di Tianjin, il quartier generale della China sports lottery, un golf village, la prima di 350 sale gioco per bingo e scommesse, lo Shanghai commercial district, centri direzionali, edifici residenziali, showroom, persino ville monofamiliari da 1.700 metri quadrati per i nuovi miliardari. I cinesi lo chiamano Ma da lì, cioè «il più grande», una traduzione del superlativo che i genitori gli imposero come nome ma anche un complimento.
A differenza dei suoi antenati, che fra il 1300 e il 1400 scesero in Francia dalla Scozia con la guerra dei cent’anni per giungere in Italia quattro secoli dopo al seguito di Napoleone e stabilirsi in Valsesia, Massimo Roj è sempre andato molto di fretta. A soli 24 anni, ancora studente al Politecnico di Milano, già lavorava come tiralinee in affermati studi d’architettura e intanto preparava due distinte tesi di laurea. Non sapendo infatti se la prima sarebbe piaciuta alla leggendaria Franca Helg, autrice col compagno Franco Albini della Rinascente di Roma e della Metropolitana milanese, ne aveva prodotta una di riserva per addottorarsi eventualmente col professor Vittoriano Viganò. «Mi andò bene, perché non solo la Helg mi conferì la laurea ma volle anche che rimanessi in università per due anni a farle da assistente».
Con i cinesi Roj ha in comune la vista lunga e l’attivismo frenetico. Per lui anche il riposo è lavoro. Una delle sue commesse più importanti la vinse la vigilia di Ferragosto del 1997 mentre era spaparanzato in spiaggia a Rimini con la moglie, insegnante di scuola materna, e i tre figli, il maggiore dei quali ha oggi 13 anni. «Lessi sul Corriere della Sera che la Camera comprava l’ex sede romana del Banco di Napoli per farne una dépendance di Montecitorio. M’impressionarono i numeri: tanti metri quadrati a disposizione, pochi dipendenti da alloggiare. Qui c’è da divertirsi, pensai».
Divertirsi in che senso?
«Sono sempre partito da una visione neoumanistica dell’architettura: controllo quali sono le esigenze di chi lavora in un edificio e progetto lo spazio che gli sta intorno, quindi muovo dall’interno verso l’esterno, non viceversa. Ma in quell’acquisto non vi era nulla di razionale. Così presi carta e penna e scrissi al presidente della Camera, che a quel tempo era Luciano Violante».
Esito della lettera?
«All’inizio, nessuno. Ma io non sono tipo da perdermi d’animo. Telefonai a Montecitorio 12 volte. Alla fine riuscii a parlare con una funzionaria e a farmi fissare un incontro con Carlo Goracci, uno dei vicesegretari generali della Camera. “Ha 15 minuti di tempo per espormi il problema”, mi disse ricevendomi. Restai nel suo ufficio due ore e mezzo. Da allora ho progettato la ristrutturazione di sette palazzi della Camera e anche della buvette di Montecitorio».
Sarà entrato nelle grazie dei diessini.
«Ho lavorato sia col centrosinistra che col centrodestra. Quando capo del governo era Silvio Berlusconi, per conto della presidenza del Consiglio sono intervenuto sugli uffici decentrati in galleria Colonna, piazza San Silvestro e via della Stamperia».
Nel suo lavoro a chi s’ispira? A Leon Battista Alberti? A Le Corbusier? A Gae Aulenti? A Paolo Portoghesi?
«A Louis Khan».
Non lo conosco.
«Ma è stato uno dei più grandi architetti del Novecento! Nato in Estonia, morto nel 1974 pieno di debiti. Geniale. Insegnava a Yale. Ha lavorato fra Usa e India. Ci hanno fatto un film, My architect».
Mea culpa.
«M’ispiro anche a Renzo Piano. E a Oscar Niemeyer, il progettista della sede Mondadori di Segrate, ha presente?».
Non si disturbi: conosco.
«Gli architetti si distinguono in due categorie: quelli che progettano per il proprio ego, per cui ogni opera diventa un monumento a se stessi, e quelli che cercano di trasformare in realtà i sogni dei loro clienti. Io appartengo al secondo gruppo. Franca Helg mi diceva: “Se vuoi soddisfare la tua vena artistica, è meglio che fai l’architetto per hobby e il maestro di sci per professione”».
Com’è arrivato in Cina?
«Per caso. Avevo appena ultimato la sede di via Taramelli della Regione Lombardia. Insistettero perché partecipassi a una missione imprenditoriale con l’Assolombarda. Sbarcato a Shanghai, mi aspettavo di trovare una selva di biciclette e di uomini e donne vestiti con la stessa casacca blu».
Invece?
«Strade larghe 50 metri, a otto corsie. Un ponte sospeso a 85 metri d’altezza sul fiume Hwangpu. Grattacieli. Nel transfer dall’aeroporto di Pudong alla città, accanto al nostro pullman sfrecciò un treno a levitazione magnetica. Gli amministratori lombardi dicevano: “A Milano stiamo progettando un nuovo depuratore”. E i politici cinesi: “Noi ne abbiamo già sette, più due impianti di desalinizzazione dell’acqua marina”. Un dirigente dell’Atm: “A Milano costruiremo entro il 2008 altri 8,6 chilometri di metropolitana”. Un ingegnere cinese: “Negli ultimi due anni noi abbiamo posato 60 chilometri di rotaie per convogli a levitazione magnetica e centinaia di chilometri per la metropolitana tradizionale”. Capii che dovevo fermarmi».
A Shanghai?
«A Tianjin, che con Pechino, Shanghai e Chongqing è una delle quattro municipalità autonome, veri e propri Stati nello Stato. Si trova a 100 chilometri dalla capitale e da sola conta più abitanti dell’Austria, oltre 11 milioni. Insegno nel locale ateneo, il più antico della Cina, fondato nel 1873. E ho pure progettato il nuovo rettorato della facoltà di architettura e il palazzo dei dipartimenti universitari».
A Pechino ha progettato qualcosa?
«Mi hanno affidato uno studio di fattibilità per due torri da destinare a uffici, una alta 160 metri e l’altra 120, più un centro commerciale da 70.000 metri quadrati».
E in campo urbanistico?
«A Tanggu, che è il porto commerciale di Tianjin, sto progettando un’isola sul mare con un grattacielo di 260 metri, albergo, centro congressi, appartamenti, fitness center. Roba d’élite».
Ma come li fanno tutti questi soldi?
«Non lo so».
Non se l’è chiesto?
«Be’, lei faccia conto che in Cina il reddito pro capite è di 1.000 dollari l’anno, ma la classe media arriva a 23.000 dollari e circa 100 milioni di abitanti guadagnano più di 100.000 dollari».
Statistiche che non spiegano l’esplosione di ricchezza.
«L’economia americana è finanziata dalla Cina. Lady Wu, la più grande proprietaria immobiliare del pianeta, è cinese, abita a Hong Kong».
Che tipi di case vogliono? Loculi come in Giappone?
«No, no, lo standard è dai 120 ai 150 metri quadrati. Fino a 500 per i nuovi ricchi. Con doppi e tripli servizi».
Vasca o doccia?
«Solo vasca, rigorosamente Jacuzzi con idromassaggio. In genere vogliono che la stanza da bagno abbia una superficie vetrata affacciata sulla metropoli».
È un così bello spettacolo?
«Con i collaboratori dei miei due uffici abbiamo tenuto il conto dei giorni in cui si vede il cielo: non più di 30 l’anno. Cielo grigio, mai azzurro, perché le ciminiere delle centrali a carbone emettono fumi impressionanti. La sera ti ritrovi con la faccia annerita».
Il bidet lo vogliono o s’arrangiano come i francesi?
«Manco sanno che cosa sia. Non è che l’igiene sia molto sviluppata da quelle parti».
L’ascensore?
«È vietato per legge fino al sesto piano. Un retaggio del maoismo: era considerato un lusso».
Così si mantengono in forma.
«No, perché dal sesto piano in poi adesso è obbligatorio».
E quanto costano al metro quadrato questi appartamenti?
«In media 700-800 euro, 1.100 a Pechino e 1.600 a Shanghai, la città più cara. Ma nella parte nuova di Pudong arrivano anche a 15.000 euro. Dal 2004 la proprietà privata degli immobili è un diritto. Però l’usufrutto cessa dopo 75 anni».
Quanto guadagna un muratore?
«Due dollari al giorno».
Gli stranieri possono comprare un appartamento?
«Sì, se dimostrano che lavorano lì. Io ne ho uno in affitto. Tre anni fa stavo per acquistarlo. Mi mangio ancora le mani: oggi varrebbe il triplo».
Come sono le case dei miliardari?
«Da una palazzina di quattro piani ho ricavato un’unica residenza per una signora dell’import-export. All’architetto italiano chiedono facciate con frontoni, timpani, colonne doriche. Io mi rifiuto d’accontentarli. Allora i clienti si fanno in proprio un patchwork di copie delle copie delle copie. Alla fine diventa una cinesata».
La stanza più importante della casa qual è?
«Il soggiorno dove si svolge il rito del tè, che si celebra a tutte le ore e, purtroppo, dura ore. Con l’ospite di riguardo fanno tutto un giro di tazzine e vassoi, continuano a passare l’infuso da una teiera all’altra. Da morire. Per fortuna non è facile essere ammessi in un’abitazione privata».
Perché?
«Sono molto chiusi, vedono gli occidentali come estranei. Un po’ meno gli italiani. In noi scorgono analogie col loro carattere».
Cioè?
«Siamo due popoli di cultura longeva, casinisti, che amano vivere e usano molto la mimica facciale».
Uguali, insomma.
«Non a caso tutti ti parlano di Marco Polo e di padre Matteo Ricci, il gesuita che evangelizzò il Paese asiatico».
Quanto tempo serve per costruire una casa in Cina?
«Pochissimo. Il progetto o va bene o non va bene. La licenza edilizia te la rilasciano in tre ore. I 10.000 metri quadrati della Tianjin university li abbiamo realizzati in nove mesi. Per tirar su la sede di un’azienda americana a Buccinasco, Lombardia, 7.500 metri quadrati, ci vorranno due anni se tutto va bene».
Com’è possibile?
«Per avviare un’attività imprenditoriale in Italia la durata media delle pratiche è di 317 giorni. In Francia ne bastano 35, in Germania 30, negli Stati Uniti 14, in Svizzera 7».
Esistono i condoni edilizi in Cina?
«Non saprei».
Non teme di commettere involontariamente qualche reato e di finire al muro?
«All’inizio avevo molta paura, lo confesso. Oggi che conosco meglio i cinesi, un po’ meno. La corruzione è punita con la pena di morte, al pari dell’omicidio. Ma io non ho mai avuto richieste di alcun tipo, forse perché i costi di progettazione incidono poco».
Quale traguardo pensa che si sia data la Cina?
«Diventare il Paese più industrializzato del mondo, la prima potenza economica. Lasciando però il primato apparente agli Stati Uniti per ragioni strategiche, di pura convenienza».
Astuti, questi cinesi.
«Non ti dicono mai bu shi, no. Solo shi, sì. La settimana scorsa al ristorante ho ordinato gamberi alla thailandese. Mi hanno portato maiale in agrodolce. Ho chiesto spiegazioni al cameriere: non se l’era sentita di dirmi che i gamberi li avevano finiti».
La Cina s’accontenta solo di vendere o in futuro vorrà anche esercitare un’egemonia politica?
«Non credo che abbia di queste mire. I cinesi sono abituati da secoli a ubbidire. I guai cominceranno quando smetteranno di ubbidire. Per il momento il loro dio è il denaro. Corrono come matti per accumularne tanto e sono molto cattivi».
Che cosa pensa dell’imposizione di dazi per contrastarne la concorrenza?
«I dazi si possono sempre aggirare, creano delinquenza. Ma ci rendiamo conto che 100 milioni di cinesi presto potranno permettersi di venire in vacanza in Europa? E la meta turistica per eccellenza, l’Italia, che fa? Ha solo quattro voli settimanali per la Cina. La Germania, che è la Germania, 35».
Lei comprerebbe la Shuanghuan Sceo, il clone cinese della Bmw X5 che costa la metà dell’originale?
«No».
Non prova qualche rimorso a lavorare per lo Stato che detiene il record mondiale delle esecuzioni capitali?
«No. Però ci penso spesso. Ho conosciuto il presidente di uno dei quattro tribunali di Tianjin. Nell’atrio del palazzo di giustizia ha fatto appendere a scopo deterrente una sequenza di 12 foto: la prima raffigura la scena di un delitto, poi la cattura dell’omicida, il processo e infine l’esecuzione del colpevole con un colpo di pistola alla nuca. Ho chiesto al giudice quante condanne a morte irroga in un anno, ma l’interprete s’è rifiutato di tradurre la mia domanda».
Esiste ancora il comunismo in Cina?
«No».
Non si direbbe.


«Mettiamola così: a Mosca sono ancora comunisti, a Pechino sono più capitalisti dei capitalisti».
Le parlano mai di Mao Tse-tung?
«Mai. I giovani nemmeno lo conoscono».
(347. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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