«I discografici si spartivano i premi»

Nell’immaginario collettivo è rimasto un mito: Shel Shapiro, quello dei Rokes, quello che ha inaugurato il Piper, che ha portato nell’Italia in bianco e nero i mille colori della Swingin’ London, quello che cantava Che colpa abbiamo noi e vendeva tanti dischi che oggi persino Vasco se li sogna. Quello lì insomma, che però non è un ex. Ha ancora i capelli lunghissimi (ora grigi) ma la voglia di guardare avanti, di non utilizzare l’immagine come un cliché; non rinnega il beat ma ora fa Shakespeare in teatro, fa teatro-canzone con Edmondo Berselli e in questi giorni pubblica l’autobiografia Io sono immortale, tagliente saggio-romanzo sull’«avventura di un ragazzo e di una generazione innamorati della libertà».
Un titolo impegnativo, un po’ troppo ego?
«Anzi, è un inno al vivere. Quando hai 18 anni il concetto di morte non esiste; pensi a suonare, a fare casino, alle donne. Oggi a 65 anni sono ancora così incosciente da non pensare alla morte ma all’arte, voglio che la gente veda la mia opera come qualcosa di attuale, non solo per il passato».
Però conta aver venduto milioni di dischi. Anche se lei provoca scrivendo: fare la star è magico anche se è stupido.
«Eravamo ragazzi privilegiati ma abbiamo cantato canzoni sociali hanno segnato il tempo come Che colpa abbiamo noi e È la pioggia che va, questa è la differenza».
Pionieri del ’68?
«I Rokes non c’entrano nulla col ’68; un giorno ero ospite in tv e, parlando del ’68 hanno fatto vedere Celentano, il Piper, i Rokes, Patty Pravo e Valle Giulia. Se quelle immagini rappresentano il ’68 io sono Napoleone, il ’68 è stato un movimento complesso e difficile da capire, soprattutto per ragazzi come noi. Già non capivamo la politica, poi vedendo gente come il regista Piero Vivarelli che era nella X Mas e qualche anno dopo aveva la tessera del Pci...».
E quindi?
«Abbiamo contribuito a spianare la strada verso il ’68 e a cambiare il costume e le regole. I nostri abiti di velluto e il nostro suono lo imitavano tutti, ma io mi vanto di non esser mai stato nazionalpopolare».
Con tutto quel successo, la tv, le copertine dei giornali?
«Nazionalpopolare è qualcosa che piace a tutti. Noi eravamo di nicchia, di grande nicchia e i nostri brani d’elite. Anche Springsteen è così. Di solito nazionalpopolare non è sinonimo di qualità perché bisogna assecondare il gusto della massa. Poi ci sono anche i nazionalpopolari di qualità, come Fiorello, Vasco, Jovanotti. O pochi grandi che dicono cose universalmente comprensibili e condivisibili come Montanelli e Biagi. Però, nostro malgrado, anche noi siamo stati per un attimo nazionalpopolari».
Quando?
«A Sanremo 1967, quando si suicidò Tenco. Il festival divenne una specie di Novella 2000 con 28 milioni di spettatori che poco c’entravano con il pop. In più cantavamo Bisogna saper perdere - un disco da record di ordinazioni, 450mila copie prima dell’uscita - ma che non è certo rappresentativo della storia dei Rokes. Noi volevamo fare canzoni più serie».
Cioè?
«Ai discografici importava che vendessimo dischi, non capire perché li vendevamo. Quindi non ci hanno permesso di tornare sul filone sociale, fu un segno di grande stupidità. Ci portarono persino a Sanremo con Che freddo fa per lanciare Nada, io volevo seguire un’altra strada, così i Rokes si sciolsero. I tempi stavano cambiando come diceva Dylan».
Ovvero?
«Ogni stagione ha i suoi eroi e io sentii che il beat era finito. Sparimmo noi, Celentano, Rita Pavone e arrivarono Lucio Battisti e il pop dei Pooh. Poi i discografici scoprirono che tirava il cantautore e lanciarono grandi come De André, Guccini, De Gregori, Venditti, Vecchioni. E più i cantautori funzionavano, più si lanciavano dei cloni che scrivevano fiumi di noiose parole».
Oggi a Sanremo si parla molto di televoto, è vero che manifestazioni importanti come il Cantagiro erano combinate?
«Credo che nessuno possa negarlo, bastava “convincere” i giurati, che erano una cinquantina, allungando qualche 10mila lire. All’epoca i dischi si vendevano davvero, quindi era importante per le case discografiche dividersi le vittorie. Una volta vinceva un big di un’etichetta, l’anno dopo vinceva un’altra. Al di là del valore effettivo delle singole canzoni. Anche noi dovemmo lasciare il podio all’Equipe 84».
Una beffa...
«Loro cantavamo una canzoncina d’amore come Io ho in mente te, noi Ma che colpa abbiamo noi che è diventato un simbolo, vedete voi chi ha vinto alla fine».
Nel libro ci sono i suoi fasti ma anche i suoi drammi: primo fra tutti la morte di sua moglie.
«Anche le botte insegnano. Io sono un cavallo da battaglia. Nel ’71 sono uscito di scena da protagonista. Ho prodotto Cocciante.

Poi sono sparito e quando son tornato, nel 99, ho ripreso dalla gavetta con l’aiuto di pochi amici come Berselli, Antonio Ricci, Moni Ovadia, Alfio Cantarella dell’Equipe 84, e son tornato in cima senza compromessi, sentendomi mortalmente immortale».

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