I gastro-filosofi: lingua forbita e palato barbaro

Egregio Dottor Granzotto, ho 70 anni e sono nato a Langhirano (Pr). Vi ho abitato fino a 21 anni, poi da 49 abito a Varese, Ho appena finito di vedere «Lineablu»: vi è sempre un sapiente di alimentazione che fa sempre vedere (e fa anche bene) dei piatti «sudisti». Per carità sono eccellenti e sicuramente in tanti casi anche leggeri! Ma la storia dell’olio in tutti i piatti, i pomodori, il pesce, che non sono solo loro (dei sudisti), li usiamo tutti in Italia. Perché insistono solo su quelli? Noi Emiliani usiamo per lo più il burro e il nostro grana come condimento (niente panna)! Lei sa quanti piatti, e soprattutto primi, noi li condiamo col burro? Non è che in Emilia si muoia a 50/60 anni e i meridionali vivano fino a 120 anni! Anche noi usiamo pomodori, molte verdure con olio... E non sono ancora morto.

Niente da fare. Cambiano i costumi, irrompe la globalizzazione, si afferma vieppiù il colonialismo gastronomico, tutto questo accade e la Linea Gotica è sempre lì, a dividere l'Italia in due. Non parlo ovviamente della Gotenstellung dietro la quale si asserragliò la Wehrmacht nell’estate del ’44. Ma di quella che divide la nazione fra consumatori di burro e consumatori di olio. Due Italie inconciliabili. C’entra ovviamente la destinazione agricola conseguente alla natura del terreno e alle condizioni climatiche di uno Stivale messo di sghimbescio, puntante all’est piuttosto che al sud. Olivi e pecore da una parte, vacche e maiali nell’altra. Col tempo qualche commistione è intervenuta e lei, caro Bianchi, ne è testimone, ma lo schieramento di campo resta, irriducibile. Bisogna però prendere atto che nel confronto i «burranti» sono usciti sconfitti, travolti dagli «olianti». Mica colpa dell’ingrediente, ma delle fisime gastrosalutiste che hanno santificato la dieta mediterranea e bollato come nefanda quella continentale. Anche se poi, come lei osserva, caro Bianchi, non è che nella sua Langhirano si schiatti a cinquant’anni e a Bisceglie si campi fino a centocinquanta. Io non so com’è che è andata, ma da tempo il cibo non è più trattato da cibo. Ci si è messa la fisima dietologica che ha fatto sparire, per esempio, i fritti. Ordinare in quelle rare e meritevoli trattorie (che mai avranno una segnalazione nelle guide perché colpevoli di empietà) un fritto è peggio che fumare in treno: segno di inciviltà e di sprezzo per il bon ton politicamente corretto. Ci si è messa, inoltre, la fregola culturale, quella per cui un celeberrimo e superstellato ristorante (faccio il nome solo su richiesta) preventivamente ammonisce la spettabile clientela che ciò che troverà nel piatto invita «i sensi, le percezioni, l’intelletto a farsi catalizzatori d’un cambiamento profondo, così che il corpo e la mente accolgano il cibo, nutrimento di nuova specie, medium a sua volta di ulteriore processo di svuotamento, ricco d’un piacere non banale, non riduttivo, non costipato, ma generoso, pronto a dar luogo ad ulteriori intenzioni di senso e di attività». In galera! Infine, ci si è messo il totem del «territorio». Per cui ci si deve cibare solo ciò che è prodotto all’intorno. Così se io, a Bolzano, mi voglio fare una soglioletta o spolverare d'origano i pomodori, niente. E se a Palermo mi andasse un risottino, niente.

Ma si può campare così? (Resta il fatto, caro Bianchi, che anche la gastronomia erudita, anche quella dietologica, anche quella territorialista devono inchinarsi a una verità assoluta: l’autentica, squisita cotoletta alla milanese è solo quella esclusivamente, categoricamente, perentoriamente cotta nel burro. Quelle cucinate con l’olio sono suole di vecchie ciabatte, buone solo per palati barbari dei gastronomi filosofeggianti).

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