Milano - Intanto Matt Bellamy è il Mentana del rock: parla come una mitraglietta, via via sempre più veloce, per di più in un accento, quello della Cornovaglia, che pare influenzato dall’ostrogoto. E dire che da anni vive quasi sempre in Italia come un Clooney qualsiasi, zona Lago di Como con la fidanzata Gaia Polloni fan di Ligabue, eppure di italiano neanche l’ombra: solo inglese, strettissimo per di più. Forse per questo in The resistance, il nuovo cd dei suoi Muse, ha cercato di essere il più comprensibile possibile, infilando nelle undici canzoni tutte le lingue della musica, dall’hard rock in su fino al progressive e alla sinfonia, con quello spirito colto e giocoso che s’è visto pure ieri a Quelli che il calcio. «Eravamo in playback - dice - e per divertirci un po’ ci siamo scambiati gli strumenti e io mi sono seduto alla batteria». Vai così, di sicuro festeggiavano pure il primo posto in classifica che da domani benedirà il loro album in tutto il mondo.
Però, caro Bellamy, perché intitolarlo «The resistance»?
«Quando sono a Londra, abito vicino all’ambasciata americana e osservo i malumori della gente, che protesta per la crisi, per il G20, per il governo e per tutte le altre drammatiche realtà del nostro mondo».
Ma lei vive in Italia.
«Appunto, così posso elaborare questi stati d’animo in modo più distaccato. Resistance esplora i diversi modi di protestare».
Anche qui da noi non ci si fa mancare nulla, in quanto a proteste.
«Una realtà come la vostra sarebbe difficile da immaginare in Gran Bretagna».
Gli inglesi la pensano così da mezzo secolo almeno. Allora nel brano «United States of Eurasia» ci sarà qualche frecciata agli Stati Uniti.
«Quel brano ci è venuto dopo aver letto un saggio di Zbigniew Brzezinski, il segretario di Stato americano che è venuto dopo Kissinger».
Quello che Obama ha elogiato pubblicamente: «Ho imparato tantissimo da lui».
«Ha scritto un’analisi nella quale spiegava la sua visione dell’America che deve gestire Europa e Asia».
Nel brano avete inserito alcune frasi del «Notturno numero 2» di Chopin.
«È un contrappeso alla megalomania che si respira in quella visione politica».
Anche voi però. Non è un disco troppo complesso?
«L’abbiamo prodotto noi e quindi non avevamo limiti. Però è anche vero che oggi, con gli mp3 e la musica dal web, ciascun appassionato di musica può ascoltare qualsiasi cosa».
Prima no?
«Prima era diverso: vuoi per motivi economici, vuoi per maggiore settorialità, ciascuno era più vincolato a un genere preciso».
In ogni caso avete molto in comune con i Queen.
«Certo, e anche molto. Ma chiunque ami l’opera e suoni rock ha qualcosa in comune con i Queen».
E lei ama l’opera?
«Sono venuto alla Scala tre o quattro volte. Mi ricordo una bellissima Madama Butterfly. E poi gli elementi classici del nostro disco sono tutti italiani. Io ad esempio sono un fan del compositore rinascimentale Giovanni da Palestrina».
Che era magniloquente e polifonico. Sarete esagerati anche dal vivo, con super palchi come quello degli U2?
«Non li abbiamo ancora visti dal vivo ma loro suonano negli stadi e noi per ora nelle arene (il 21 novembre a Bologna e il 4 dicembre a Torino). Il nostro palco sarà al centro, con il pubblico intorno».
Vi
«No, soltanto quattro persone che suoneranno le parti sinfoniche. Solo in qualche occasione avremo un’orchestra: portarsela sempre dietro costa troppo, mica ce lo possiamo permettere».
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