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«I palestinesi non si affideranno ai fondamentalisti islamici»

Disillusione tra gli abitanti della città dove nacque Gesù: qui la disoccupazione è al 45 % e il turismo stenta a ripartire

Luciano Gulli

nostro inviato a Betlemme

«Ah, come vola il tempo», gli dico abbracciandolo.
«Eh, come vola il tempo» conviene lui, il frate polacco, dopo avermi messo a fuoco attraverso le lenti che gli ingombrano la faccia da buono.
Quattro anni dopo, padre Severino Lubecki sembra lo stesso della primavera 2002, quando eravamo insieme nella Basilica della Natività, circondati da 200 palestinesi con mitra e i blindati israeliani con le ganasce spalancate davanti alle fondamenta di Casa Nova, l'ostello dei pellegrini tenuto dai francescani. La carnagione chiara, gli occhi azzurri, i capelli biondi tagliati a spazzola, la stessa faccia da ragazzo. La stessa flemma, soprattutto; la stessa serena pacatezza, ma condita d'ironia di quei giorni, quando le pallottole fioccavano che era una bellezza e lui - come suor Nunziatina, la nostra vivandiera - guardava serafico il suo crocefisso e diceva: «Passerà».
Severino mi racconta del Natale, dei pellegrini che dopo tanti anni sono tornati ad affollare la Basilica per la messa di mezzanotte e poi si sono fatti gli auguri sulla piazza della Mangiatoia.
«Sono arrivati verso le 18. Qualche migliaio, sai. Non i trentamila di cui ho letto su qualche giornale. E il mattino dopo non c'era in giro più nessuno. Vai al Paradise, al Santa Maria, chiedi a quelli dell'hotel Bethlehem. Vedrai se non ti dico la verità. Gli albergatori hanno lavorato solo quel giorno. Poi, il deserto. Ora si comincia a vedere qualche pullman di turisti. Arrivano, visitano la basilica, fanno le loro foto, si fermano a pranzo e ripartono».
Ma per Betlemme questa è sempre stata stagione morta. «A febbraio - conferma Severino - qualcosa cambierà. Noi aspettiamo gruppi di 30, 40 persone al giorno. Italiani, croati, polacchi, spagnoli. Russi soprattutto. Ma sarà un turismo mordi e fuggi, come dite voi italiani».
Quattro anni dopo, Betlemme sembra una prigione a cielo aperto. Il muro costruito dagli israeliani a ridosso delle ultime case di periferia la soffoca come un nodo scorsoio. Entrarci, per i turisti, è faticoso, ma non difficile. Uscirne, per i palestinesi, è un terno al lotto. Gli arabi, i frontalieri che ogni giorno vanno a lavorare a Gerusalemme, sono meno di 300. Per tutti gli altri è la clausura, a meno che non abbiamo impellenti e documentate ragioni. Ma è un calvario di carte, di permessi, di timbri. Qualche volta ti va bene. Quasi sempre è un no. Senza spiegazioni.
Michel Kumsje, arabo cristiano titolare di un negozio di souvenir in cui troverete rosari, capanne col Bambino, madonne di Fatima e crocefissi di legno d'olivo, mi racconta dei suoi due figli, tecnici elettronici, che aspettano da mesi un permesso per andare a ultimare certi lavori all'aeroporto di Gaza. «Che hanno fatto i miei figli per non meritarsi il lasciapassare? Questo ho domandato alle autorità israeliane, ma non mi hanno neanche risposto».
«Per le feste di Natale - conferma padre Severino - gli impiegati di Casa Nova hanno avuto un permesso speciale di una settimana per andare a trovare i parenti a Gerusalemme. Ma solo perché ci abbiamo messo una parola buona noi».
George Juha, proprietario del St. George restaurant, racconta le stesse cose. Oggi è riuscito a mettere a tavola un gruppo di 31 americani. Ma per quasi quattro anni il ristorante è rimasto chiuso. «I turisti hanno paura. Non si fidano di questa calma apparente. E io non so dargli torto. Perché di fronte a un 85 per cento di gente che vuole la pace, ed è pronta a una convivenza pacifica con gli israeliani, ce ne sono degli altri... »
Gli «altri» sono i militanti della Jihad e di Hamas, che a Betlemme ha una delle sue roccaforti. In Consiglio comunale sono già una potenza. Su un totale di 15 consiglieri (8 cristiani e 7 musulmani) quelli di Hamas sono 5.
Non basta la faccia del vecchio Yasser Arafat che occhieggia dai manifesti incollati ai pali della luce, schierato nella battaglia elettorale per tirar voti al mulino di Al Fatah, per contrastare la capacità seduttiva di un partito che non è fatto solo di kamikaze, ma aiuta concretamente la popolazione con denaro contante, iniziative sociali, scuole, astanterie.
Un sondaggio condotto dall'università palestinese di Bir Zeit assegna ad Al Fatah il 35 per cento e a Hamas il 30. Ma il bello è che il partito fondato dallo sceicco Yassin ha guadagnato la bellezza di 10 punti in un mese. E di qui al 25 gennaio, data delle elezioni, può rosicchiare ancora qualche posizione.
«Tra la gente - racconta padre Severino - Hamas ha molto seguito. Il caos, l'anarchia in cui è sprofondata l'Autorità palestinese, la corruzione del vecchio apparato: i palestinesi sono stanchi. Morto Arafat, Al Fatah si è come svuotata. Guarda quello che succede a Gaza. Ti pare che Abu Mazen possa vantare un po' di autorità, laggiù?»
Victor Batarseh, sindaco cristiano di Betlemme, non fa previsioni. «Però non credo che avremo un governo dominato da Hamas - dice -. Comunque vada, molte cose cambieranno. Avremo un governo forte, se Dio vuole. Un governo capace di prendere delle decisioni. Di una cosa però sono sicuro. I palestinesi non metteranno il loro destino nelle mani di fanatici jihadisti. A Betlemme abbiamo una disoccupazione che sfiora il 45 per cento. E dall'Autorità palestinese il mese scorso non ho avuto neppure i soldi necessari per pagare gli stipendi degli impiegati al municipio. Dicono che i Paesi donatori hanno stretto i cordoni della borsa. Così, i soldi degli stipendi me li sono dovuti far prestare dalle banche. Ora lei si immagina che succederebbe, in America, in Europa, se Hamas dovesse stravincere? Eppure, se guarda nel campo avverso, in Al Fatah, vedrà solo una miserabile lotta tra fazioni.

E poi ci domandiamo perché siamo destinati a perdere sempre il confronto con gli israeliani».

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