E lasciatelo in pace: 23 mesi di galera, 17 anni di calvario giudiziario, inchieste farsa (persino sul passito che produce a Pantelleria) con Cosa nostra che lo voleva pure ammazzare salvo poi destinare il tritolo a Paolo Borsellino. Non ha pace l’ex ministro Calogero Mannino (nel tondo), al cui nome è collegata la sentenza (sua, di assoluzione) che ha rivoluzionato la giurisprudenza in tema di reati associativi mettendo paletti un po’ più seri all’effettiva sussistenza del «concorso esterno in associazione mafiosa».
È dell’altro giorno la notizia che Mannino, deputato eletto nell’Udc ora al gruppo misto, è indagato dalla procura di Palermo per aver fatto pressioni per alleggerire il carcere duro ai mafiosi dopo le stragi del 1992. Parte attiva nella presunta trattativa Stato-mafia, dunque. Stando all’accusa Mannino è sott’indagine per «aver esercitato pressioni su appartenenti alle istituzioni affinché non fossero adottati e prorogati provvedimenti di 41 bis nei confronti di detenuti di mafia», e per aver «turbato la regolare attività dei corpi politici e amministrativi dello Stato italiano».
Mannino è un outsider sulla trattativa. Tanto più che nell’inchiesta che vede indagati, il generale Mario Mori, Dell’Utri, Riina e Provenzano, non figurano personaggi che molto più di lui, per tabulas, risultano aver avuto un qualche ruolo in quel presunto patto scellerato: il defunto presidente Oscar Luigi Scalfaro, che più testimoni ricordano come avesse fatto pressioni per sostituire il capo del Dap (il dipartimento penitenziario) e affidare l’incarico a un uomo più morbido; l’ex ministro di Giustizia Giovanni Conso, che ha ammesso di avere di propria iniziativa deciso la scarcerazione di circa 300 mafiosi detenuti al 41 bis, il regime di carcere duro. Per non parlare di quanti, a scoppio ritardato di decenni, hanno ricordato spezzoni di quella presunta trattativa. Gente come l’ex ministro Claudio Martelli o l’ex presidente della commissione antimafia Luciano Violante.
Personaggi del calibro istituzionale di Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, che proprio oggi - coincidenza - deporrà al processo Mori. Perché Mannino? I pm Ingroia e company non precisano, nell’informazione di garanzia, le fonti di prova. Fanno solo filtrare come l’ex ministro, che come dice Giovanni Brusca «era all’epoca in cima alla lista dei personaggi da ammazzare», sarebbe sceso a patti con Cosa nostra facendo concessioni sul carcere duro.
A incastrare Mannino sarebbe stato, a verbale, un alto funzionario dello Stato. Ma la manovra avvolgente sul vicerè democristiano parte da lontano, dall’«anonimo» circolato a cavallo tra le due stragi, sul quale Mannino chiese di indagare a fondo in tv con Minoli nel dicembre 2010. Anonimo indirizzato a 39 destinatari, tra cui Scalfaro, l’ex presidente della Camera Napolitano, lo stesso Borsellino, investigatori e direttori di giornali: quello scritto non firmato conteneva gli elementi base del famoso «papello» di richieste dei boss, indicando oltre 20 punti su cui indagare, tanto che, pur non essendo stato mai individuato l’autore, si pensava che venisse da ambienti investigativi più o meno deviati.
A Mannino l’anonimo dedicava un capitolo specifico, raccontando di un incontro nella sacrestia di una chiesa di San Giuseppe Jato - il paese di Giovanni Brusca - con il Padrino Totò Riina seguito da un ulteriore incontro, sempre col superboss, in cui Mannino avrebbe offerto garanzie sui latitanti, sulle loro ricchezze, sulla possibilità di partecipare agli appalti. Corvi, che non essendo stati scoperti, son tornati a volare, come preannunciato allora a Minoli. Mannino sarà interrogato lunedì.
Oggi è incredulo: «Non capisco a cosa fanno riferimento, pressioni presso chi? Nelle carte non c’è un fatto, è un’accusa del nulla. Non mi va di polemizzare coi pm, sono stanco di essere perseguitato». Interrogatelo pure, ma poi lasciatelo in pace.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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