I radicali temono l’oscuramento da «dolce Walter»

In fin dei conti, come ricorda orgoglioso Pannella, è «il più antico partito della Repubblica», l’unico che «non ha mai dovuto cambiare il proprio nome per vergogna». Da cinquanta e passa anni sono lì, i Radicali, ed è lì il loro gran capo, un po’ Gandhi e un po’ Ceausescu: il leader più longevo e meno discusso (dai suoi) della storia politica repubblicana.
Ieri, dunque, i radicali hanno chiuso il loro congresso, nelle nebbie di Padova, riconfermando una nomenklatura tutta al femminile: la segretaria Rita Bernardini, la presidente Coscioni, la tesoriera Zamparutti, più la ministra, Emma Bonino: pure questo un caso unico, in Italia. Anche se poi tutti sanno che a tirare i fili è uno solo, e maschio.
Solo che anche lui, oggi, sembra non saper bene che fili tirare. Nel 2006 i radicali sono approdati nel centrosinistra, e per la prima volta al governo. Sfortuna ha voluto (ma loro denunciano la violazione delle leggi elettorali) che non sia risultato eletto alcun senatore: e in questa legislatura chi non li ha conta poco o niente, nella maggioranza. Né il ministero del Commercio estero, affidato a Bonino, può essere cruciale per le scelte di governo. Insomma, il loro peso contrattuale nel centrosinistra è minimo, il loro spazio di manovra pure. E ora sulla scena ha fatto irruzione un nuovo protagonista: Walter Veltroni e il suo Pd, che lui vorrebbe molto «americano» e a forte impronta riformista.
Per i radicali, che nel centrosinistra vorrebbero giocare il ruolo di alfieri delle riforme economiche liberali, dal fisco alle pensioni, e di feroci oppositori del «conservatorismo» della sinistra sindacal-massimalista, l’avvento di Veltroni rischia di comportare l’oscuramento. Certo Pannella, che ancora si dichiara «l’ultimo giapponese di Prodi», non disdegnerebbe di giocare su più tavoli, e di aprire un dialogo anche con il Pd. Ma il «premier ombra» Veltroni lo sfugge: nei giorni scorsi, il leader radicale era furioso per il rifiuto opposto dal «dolce Walter» (così velenosamente ribattezzato) ai suoi insistenti inviti a Padova. E certo non lo ha consolato quel messaggio di circostanza inviato dal sindaco di Roma al congresso: vaghe carezze («Siete essenziali per il profilo riformista del governo») ma nessuna apertura di credito.
Pannella aveva provato a buttare tra i piedi di Veltroni la candidatura alle primarie di Emma Bonino: «A te non possono dire di no», aveva cercato di convincerla. Lei però ha rifiutato, difendendo il suo profilo «istituzionale», e Emma è l’unica, nell’universo radicale, che può permettersi ogni tanto di negarsi al Capo, cui tocca covare in silenzio la rabbia perché sa di non poterla cacciare come un Capezzone qualsiasi. Oggi, nella frenetica ricerca di nemici interni necessari ad esaltare il suo ruolo catartico nel partito, c’è chi assicura che gli anatemi pannelliani si stiano dirigendo sul direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin. Per la sua ascoltatissima rassegna stampa «troppo di regime», secondo il leader, e troppo poco militante. Film già visto molte volte, anche se per ora Pannella assicura che la polemica con Bordin serve solo a «dare visibilità» ai radicali.
Alle primarie provò a candidarsi lui, e gli chiusero subito le porte. Fuori dal Pd, e senza Rosa nel pugno visto che lo Sdi si sta dedicando alla Costituente socialista (e reclama un Prodi bis nella speranza di entrare al governo al posto della Bonino, che non a caso si oppone ai rimpasti), i radicali si muovono a tentoni.
Difenderanno ad oltranza il governo, hanno annunciato da Padova, ma anche «la legislatura».

Sostegno a Prodi, dunque, ma se cadesse non porteranno il lutto: Napolitano sa di poter contare su di loro nel «partito anti-elezioni». Anche perché un voto anticipato rischierebbe di cancellarli dal Parlamento. Sventato quello, si vedrà.
Laura Cesaretti

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