"I ragazzi hanno paura di rischiare. E restano coi genitori"

Parla il sociologo Emilio Reyneri: "I ragazzi restano coi genitori perché non vogliono rischiare. Il governo, però, stia attento. Generalizzare fa salire la tensione"

«L’errore è generalizzare, perché si innesca una polemica che non fa altro che acuire le tensioni delle giovani generazioni. Non tutti i giovani sono uguali, non tutti vogliono il posto fisso e non tutti lo vogliono vicino a casa dei genitori». Il professor Emilio Reyneri (nella foto), ordinario di Sociologia del lavoro all’Università di Milano Bicocca, consulente e coordinatore di progetti sulla politica del lavoro, risponde alla «strigliata» del ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. E chi potrebbe farlo meglio di lui che, come padre di un giovane architetto, e come docente, ha sotto gli occhi, ogni giorno, i disagi, le aspettative e anche le disillusioni delle giovani generazioni.

Dunque, professor Reyneri, che cosa si sente di dire al riguardo?
«Che dagli States, all’Europa, all’Australia, il mondo è pieno di giovani talenti italiani che hanno scelto di mettersi in gioco andando a lavorare ben lontano dai propri genitori. Il vero problema delle generazioni di oggi è che speravano di far meglio di mamma e papà e invece si stanno accorgendo che questa prospettiva non c’è, che rischiano solo di regredire rispetto ai loro genitori. E questo suscita incertezze e timori legittimi».

È vero che una volta trovato il posto fisso non lo si vuol più mollare?
«Le recenti indagini hanno evidenziato una grande mobilità nel mercato del lavoro. Quindi non è vero che una volta trovato il posto ci si resta per la vita. Tant’è che anche gli economisti anglosassoni hanno corretto il tiro, e oggi chiamano open end job quello che fino a ieri chiamavano permanent job. È vero invece che nella realtà produttiva italiana, fatta di tante piccole e medie imprese, molte di queste imprese sono costrette a chiudere o a ridurre personale. Quindi il posto di lavoro o si perde per questo motivo oppure lo si lascia per scelta, tornando a scommettere su se stessi. Ma in una situazione così composita è comprensibile anche la necessità, avvertita da tanti giovani di cercare maggior sicurezza possibile di mettersi al riparo dai rischi».

Posto di lavoro vicino a mamma e papà: è un’altra caratteristica dei giovani italiani?
«Anche in questo caso vietato generalizzare. Un conto sono le giovani coppie con figli che, lavorando e non avendo la possibilità di lasciare i bimbi nelle poche strutture che lo Stato offre, sono costrette ad appoggiarsi ai genitori e quindi cercano un lavoro vicino alle famiglie d’origine. Un conto sono i giovani che non vogliono allontanarsi troppo da mamma e papà».

C’è una giovane Italia di mammoni quindi?
«Direi una parte di giovani che, di fronte ad una panorama instabilità e di incertezze, preferisce rimanere sotto l’ombrello dei genitori e non se la sente di rischiare perché il rischio è altissimo. I giovani di fine anni Sessanta, inizio anni Settanta decisero di rompere con le famiglie perché avevano davanti praterie sconfinate. Trovare a casa a prezzi accessibili era piuttosto facile, idem per il posto di lavoro, il costo della vita non era così insostenibile da qui la scelta di uscire di casa e buttarsi nell’avventura di costruirsi il proprio avvenire. I giovani di oggi, al contrario, si sentono invece schiacciati dalle nostre generazioni, partono con l’handicap di un alto costo del lavoro e di un sistema produttivo che domanda soprattutto lavori scadenti e non posti di alta qualificazione».

Ma ci sono giovani che decidono di rischiare mettendosi in proprio?
«Intanto ci sono giovani che ereditano la bottega o lo studio di un loro genitore e quindi hanno sicuramente orizzonti più certi davanti a loro. Poi c’è chi invece, per un certo periodo lavora come dipendente e poi decide, acquisita una rete di clienti e messo da parte un po’ di capitale, di mettersi in proprio. In questa tipologia rientrano giovani e meno giovani».

Eppure suo figlio, giovane architetto, ha deciso di scommettere su se stesso...
«Mio figlio con altri due suoi coetanei e colleghi ha deciso di aprire uno studio e di mettersi sul mercato. Ma le difficoltà che sta incontrando sono notevoli. Il loro giovane studio riesce a lavorare solo nel privato perché nel pubblico gli appalti vengono affidati a studi già conosciuti. Di cui ci si fida perché dovrebbero assicurare competenza ed esperienza. Anche questo non fidarsi dei giovani e del loro talento che spesso complica tutto e crea una barriera invalicabile nella società di oggi».

Un luogo comune quello dei giovani incompetenti?
«Direi di

sì, perché se è vero che l’esperienza è un bagaglio importante per cercare un posto di lavoro è altrettanto vero che i giovani di oggi hanno spesso più competenza, dall’informatica alle lingue, dei cinquanta-sessantenni».

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