I Rem riportano sul palco il rock intellettuale

Aperto ad Amsterdam il tour che il 26 luglio sarà anche al Jazzin’ Festival di Milano

nostro inviato ad Amsterdam

Intanto lui, Michael Stipe, è sempre uguale, grintoso e raffinato come il solito e adesso non si tinge neppure più il volto di turchese. Bentornati in Europa, cari Rem: dopo lo show milanese per Mtv se erano stati per qualche mese negli Stati Uniti e ora rieccoli qui, al Cultur Park di Amsterdam, a battezzare un tour europeo che più lungo non si può: 46 concerti uno di seguito all’altro, compresi quelli italiani dal 20 luglio a Perugia fino al 26, quando suoneranno all’Arena di Milano in quella bella rassegna che è il Jazzin’ Festival. Sarà anche lì, come sul palco di Amsterdam, un concerto senza giri di parole, molto rock, molto diretto, mai retorico, capace di fare ciò che ormai non riesce quasi più a nessuno: cultura con la musica. Ogni volta che parla, e lo fa di rado, Michael Stipe apre una finestra sul mondo e prova a illuminarlo con le sue canzoni, mescolando con bella sintesi d’interpretazione testi profondi come raramente capita di ascoltare. Sarà per questo che la canzone d’inizio è già un messaggio esistenziale che la dice lunga sin dal titolo, Living well is the best revenge, vivere bene è la miglior vendetta, alla faccia di tanti proclami che in questi quarant’anni hanno segnato la storia del rock. E perciò guardatelo, Michael Stipe, inguainato in un abito scuro e aderente, quasi stravolto dal jet lag perché «è il nostro primo show fuori dagli Stati Uniti», capacissimo di scavallare sui ritmi di What’s the frequency Kenneth? o di Bad day senza perdere quell’aplomb intellettuale che lo ha reso un’icona ma non lo ha trasformato in un divo. Tutto lo show gira intorno a lui e pazienza se Peter Buck, Mike Mills e gli altri due turnisti della band sfacchinano come pochi, suonano bene o benone ma se ne stanno mansueti nelle retrovie sotto un palco scenograficamente asciutto ma davanti a un pubblico, diecimila non di più, bagnato dal solito acquazzone olandese. Assistono anche loro mansueti, e senza neppur aprire gli ombrelli perché vietato dalla security, a un concerto gioiellino, bello ma non esaltante, capace di appendersi via via alle canzoni, da Ignoreland a Orange crush a I’gonna dj, per trasmettere l’energia del rock e, soprattutto, la sua positività. Non si balla, alla corte dei Rem, e neanche si sbevazza o si gode come a un party. Si ascolta: e ci sono brani come Hollow man, The one I love o Horse to water, che chiamano proprio l’attenzione, aprono idealmente le braccia sul palco per farsi ascoltare e basta, così, con calma. Persino Let me in, dedicato a Kurt Cobain e composto con la sua chitarra donata da Courtney Love, viene accolto con riserbo e coccolato dal silenzio, molto nordico, molto rispettoso, degli olandesi.

E allora, per sottolineare che stavolta i Rem puntano di più ancora sul significato del loro rock, ecco che il brano Losing my religion, il loro capolavoro, il loro traghetto per l’immortalità musicale, è suonato tra gli ultimi, nei bis, quando il cielo è buio e le luci dei megaschermi diventano piccoli fari che nessuno segue perché gli occhi sono sempre puntati su di lui, su Michael Stipe, che dopo Man on the moon se ne va beato com’era arrivato, con quella giacchetta stretta e nera che da lontano lo fa così simile all’innamoratino di Peynet o a Charlot visto di spalle.

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