Cultura e Spettacoli

I revisionisti a caccia di Shakespeare

Personaggio inventato, «nom de plume» del figlio del conte di Warwick, imprigionato nella Torre di Londra, pseudonimo di Cristopher Marlowe: le ultime teorie - più o meno convincenti - sul bardo inglese raccolte nel saggio di uno studioso americano

Se cercate qualche lettura che competa con i romanzi di Dan Brown, quanto a descrizione di complotti e trame dalla durata secolare, vi consiglio di buttarvi sulla saggistica che tratta delle origini di William Shakespeare.
Chi era veramente il grande commediografo elisabettiano? Era il filosofo e statista Francesco Bacone? Era Cristopher Marlowe che non sarebbe morto nel famoso agguato ma, sopravvissuto, avrebbe scritto tutte le opere dell’autore dell’Amleto?
Era questo o quel nobile della corte della regina? Che il figlio di un guantaio, diventato attore, possa essere l’autore delle opere più importanti della cultura occidentale, disturba molti ricercatori, spesso ben documentati, anche se spesso più amatori che veri e propri accademici.
Anche l’ultimo anno ha avuto la sua razione di shakespearologi negazionisti. Naturalmente contrastati da feroci difensori della tradizione (chiamati gli stratfordiani, quelli che sostengono che le opere di Shakespeare sono proprio dell’attore nato a Stratford on Avon). È uscito recentemente un libro dal titolo The Shakespeare wars: clashing scholars, public fiascoes, palace coups (Le guerre su Shakespeare: studiosi in conflitto, grandi fiaschi, colpi di palazzo) di Ron Rosenbaum, edizioni Random House, 624 pagine. Libro in cui l’autorevole giornalista (non schierato) segnala quanto sia feroce e pieno di colpi bassi lo scontro tra studiosi e critici shakespeariani.
Tra le più recenti «guerre» shakespeariane segnaliamo quella di Brenda James, lettrice d’inglese al British European Center, che insieme al docente di storia moderna William D. Rubinstein dell’università di Aberystwyth nel Galles, ha lanciato un nuovo nome come possibile «vero Shakespeare», nel libro The truth Will out, gioco tra il significato letterale delle parole «la verità verrà fuori» e il «Will» che allude a William (editore Pearson-Longman, pagg. 350). La Brenda, con Rubinstein, sostiene che il vero Shakespeare sia Henri Neville, figlio del conte di Warkick, erede di una gloriosa famiglia, con qualche pretesa al trono d’Inghilterra, protagonista con il conte di Essex di intrighi che finirono per portarlo a soggiornare nella Torre di Londra.
Altrettanto elaborato è il plot proposto da Clare Asquith in Shadowplay (La commedia mascherata) (editore Public affairs, pagg. 350) La Asquith, nota specialista, è anche moglie dell’ex ambasciatore britannico a Mosca, dove negli anni Settanta l’autrice ebbe l'intuizione del carattere «mascherato» dell’opera di Shakespeare. Come i dissidenti anti brezneviani lanciavano attraverso le commedie di Cechov messaggi anticomunisti al pubblico più affezionato, usando una sorta di codice comunicativo che sfuggiva al Kgb, così si sarebbe comportato il grande Bardo in difesa dei cattolici contro il clima oppressivo instaurato dai circoli protestanti legati a Elisabetta I.
Secondo la Asquith, Shakespeare sarebbe proprio la persona nato a Stratford on Avon, di cui rimane il nitido ricordo dell’attività di attore ma di cui restano solo pochissimi e ridottissimi documenti. Le opere del grande commediografo sarebbero sue. Ma la sua formazione (quella che fa disperare tanti accademici che non hanno tutto il materiale documentario necessario per spiegare come l’autore più brillante del mondo abbia acquisito gli strumenti indispensabili per scrivere le opere attribuitegli) sarebbe avvenuta sotto la protezione di gesuiti clandestini che poi lo avrebbero spinto a usare le sue opere teatrali come armi contro l’establishment protestante.
Ed ecco alcune «letture» decodificate di commedie e tragedie shakespeariane proposte dalla James e dalla Asquith: le une tese a dimostrare la «nevillità» del Bardo, le altre il suo bellicoso cattolicesimo. In Sogno di una notte di mezza estate, nota la Asquith, Ermia è scura, Elena è chiara. Ermia si autodefinisce una tawny tartar, una scura tartara, un’etiope: tartari, etiopi sono tutti sinonimi, ben noti al pubblico del Globe, dei pruriginosi puritani. La dialettica tra fair (chiari) e brown (scuri) rappresenta - sempre secondo la Asquith - in tutta l’opera shakespeariana lo scontro tra solari cattolici e scuri (anche moralmente) protestanti.
Romeo e Giulietta nell’interpretazione asquithiana è un’opera dedicata a una famiglia protettrice di Shakespeare: i Montague, grandi protettori di cattolici entrati in conflitto con l’entourage elisabettiano. Quando Romeo inveisce contro la luna, quest’ultima rappresenta Diana, cioè la dea vergine cioè la regine vergine: Elisabetta.
Un duro attacco del Bardo perché la regina all’epoca acconsentiva troppo alle persecuzioni anticattoliche. La figura di Mercuzio, poi, sarebbe ispirata a Cristopher Marlowe, anche lui come il personaggio della tragedia ambientata a Verona, dalla dubbia moralità e, nel suo secondo mestiere di spia, incerto tra protestanti e cattolici.
In Romeo e Giulietta si esibisce una conoscenza dell’Italia che solo Neville - sostiene la James - che lì aveva viaggiato in lungo e in largo, poteva avere. E veniamo ad una delle opere più celebri, Amleto: per la James, è l’opera scritta da Neville prigioniero nella Torre. Da qui l’amarezza diffusa e i ritratti dei vari potenti elisabettiani (Polonio è Cecil senior, Laerte, Cecil junior, Gertrude è Elisabetta, e così via).
Il mercante di Venezia, Shylock, fa parte della serie dei «bruni». E altro che ebreo: non può che rappresentare i protestanti. A Londra, scrive la Asquith, non si faceva che polemizzare con «gli usurai protestanti». Ma come poteva Shakespeare documentarsi sugli ebrei a Londra? Non ce n’erano più dalla fine del Duecento e non sarebbero tornati che a metà del Seicento. Per conoscere gli ebrei bisognava essere stati a Venezia: come Neville. Per non parlare della scienza giuridica di Porzia: farina del sacco di un laureato a Oxford, non del figlio di un guantaio.
Questi sono solo alcuni esempi: nei saggi in esame si discute verso per verso, commedia per commedia, tragedia per tragedia, dramma storico per dramma storico. In questo modo Clare Asquith e Brenda James accumulano frasi, citazioni, squarci storici per convalidare la loro tesi. Forse più affascinanti che convincenti.
Quanto a me, con le mie competenze storico-filologiche che sono quelle che sono, paiono più convincenti due altri libri su Shakespeare usciti in questi mesi 1599. A year in the life of William Shakespeare (1599. Un anno nella vita di William Shakespeare) di James Shapiro (Faber and Faber, pagg. 429) e Will & me (Io e Will) di Dominic Dromgoole (Allen Lane, pagg. 294). Shapiro descrive gli avvenimenti dell’anno 1599, le difficoltà del regno inglese (Spagna, Irlanda, papato), e come queste s’intrecciano alla vita del teatro (il Globe appena costruito), della compagnia (The Lord Chamberlain’s men) e dei testi shakespeariani. Dromgoole, da tempo regista shakespeariano e oggi direttore artistico del nuovo Globe (appena ricostruito) spiega come il suo amore per il poeta nasca da un’infanzia vissuta tra le follie di due genitori entrambi attori shakespeariani.
Shapiro spiega fatto dopo fatto (per esempio il rapporto strettissimo tra personaggi inventati da Shakespeare e l’andare e venire degli attori a disposizione della compagnia: William Kemp per Falstaff, Richard Burbage per Amleto), vicenda dopo vicenda come Shakespeare non possa che essere Shakespeare, l’attore, il figlio del guantaio, prudente in politica e in religione, maestro di vita.
La stessa tesi sostiene Dromgoole con le armi della sua professione di attore e regista, invece che con quelle della critica storica e letteraria. Ipotesi più convincenti di quelle pur affascinanti della Asquith e della James.

Ma intanto le Shakespeare wars continuano.

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