Ammettiamo pure lesistenza di un musulmano buono e di uno cattivo (fondamentalista): il problema è capire perché cè quello buono e quello cattivo, perché uno diventa fondamentalista e laltro no.
Studiosi angloamericani stanno vivisezionando ogni aspetto della società islamica per cercare di comprendere un fenomeno che ha trovato impreparata la cultura occidentale. Ce ne dà notizia uno dei più quotati giornalisti del Washington Post, David Ignatius e la cosa sorprendente riguarda il fatto che alcune ipotesi, che cercano di spiegare lo sviluppo moderno del mondo islamico, non sono poi così lontane da ciò che è accaduto nella nostra realtà occidentale. Due questioni sono oggetto di particolare attenzione: il rapporto tra élite e popolo da un lato, dallaltro Internet.
Supporre che la società islamica sia rimasta chiusa in un medioevo barbarico è un clamoroso abbaglio che deforma qualsiasi visione dei problemi che in essa si manifestano. Si è piuttosto verificata una separazione profonda tra quella parte di popolazione istruita, con relazioni internazionali costituite attraverso gli scambi economici e culturali e il resto della popolazione chiusa nella propria ignoranza. Insomma, tanto più nei Paesi islamici si formano élite aperte, internazionali, tanto più queste élite si separano dalla loro base sociale originaria, che viene abbandonata a se stessa, senza riferimenti che siano diversi dalle prediche degli imam nelle moschee. Prediche ci sono sempre state, prediche che, presumibilmente, hanno sempre fomentato la rabbia dei musulmani contro gli infedeli e il mondo corrotto occidentale, ma che trovavano anche un contrappeso nelle forme diverse di mediazione culturale come i giornali, la televisione, le stesse scuole coraniche che invitavano alla riflessione, al dialogo. La predica poteva incendiare gli animi, ma poi cera anche il tempo per la mediazione e ciò costituiva di riguadagnare un accettabile equilibrio. Paradossalmente, il fondamentalismo islamico trova adesso il suo spazio dazione proprio quando una parte considerevole della società islamica si internazionalizza, proiettandosi allesterno del proprio Paese dorigine, disinteressandosi di ciò che accade nella propria terra. Alla popolazione più arretrata vengono perciò a mancare quelle relazioni con la parte colta e moderata della società che agiva da filtro dellinquietudine e della rabbia popolare, stemperandola, riportandola lentamente alla riflessione.
A ben guardare, non siamo di fronte a una situazione molto diversa da quella che ha caratterizzato lo sviluppo della nostra società moderna dalla fine del Settecento a tutto il secolo successivo. Ma lesame di queste analogie e le ovvie e significative differenze, aprirebbero tutto un altro discorso. Mentre alla separazione tra élite e base popolare del mondo islamico si associa un fatto assolutamente nuovo che genera, per così dire, una inedita «rabbia in diretta».
Sembra che la rabbia popolare dipenda molto più dalluso di Internet che dalle infuocate parole di qualche imam. Internet diventa infatti il sistema in grado di mettere immediatamente in comunicazione le emozioni collettive. In tempi rapidissimi si diffonde la rabbia, si organizza la protesta, si lanciano parole dordine che subito portano nelle piazze milioni di persone.
Nessuno dubita sul fatto che i musulmani che hanno saccheggiato le ambasciate occidentali, bruciato bandiere, massacrato preti fossero guidati da precise strategie. Ma ad appiccare lincendio è stato Internet, la sua interattività rapidissima e senza confini che ha messo in contatto migliaia di persone tra loro, senza dare il tempo, a chi ne fosse stato in grado, di mediare, di invitare alla riflessione. È sufficiente una parola di ribellione pronunciata con convinzione da un esagitato e affidata alla rete, perché il fuoco divampi, senza che nessuno sia più in grado di rimediare.
Internet, che nasce come forma di libertà comunicativa, che concede a tutti di esprimere la propria opinione senza censure, sta diventando uno strumento per minacciare e aggredire le democrazie.
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