Immunità e Psi errori di Napolitano

Stefania Craxi

Giorgio Napolitano è stato eletto presidente della Repubblica. È l’ora della retorica nazionale. Le agenzie sfornano a getto continuo dichiarazioni di elogio e di entusiasmo di parlamentari e uomini politici, fogli e fogli sono dedicati a rintracciare nella biografia di un fedele funzionario delle Botteghe Oscure tracce di qualche cosa che possa nobilitarne la figura. I giornali si preparano alla agiografia. Insomma, per dirla, in termini a tutti comprensibili è il momento degli opportunisti e dei genuflessi. Dispiace dover annoverare fra questi numerosi ex socialisti, fra i quali si distingue Amato che, incassato il colpo, si congratula per l’ottima scelta. Qualcun altro si vanta di essere stato il primo a parlare della candidatura di Napolitano e un altro ex che non voglio nemmeno nominare spinge l’azzardo a paragonarlo a Pertini e a Saragat. Ignora, lo sciagurato, che Pertini e Saragat furono uomini di coraggio, il primo capace di sfidare il fascismo, i suoi tribunali e il carcere, il secondo di rompere con il comunismo e di assicurare all’Italia la grande vittoria del 18 aprile ’48, che segnò la nostra rinascita, quando il comunismo, allora alleato ai socialisti, sembrava trionfare. Di segno opposto è la vita di Napolitano. Se certe sue convinzioni lo portarono fuori dall’ortodossia comunista, indicandogli la strada scelta da Antonio Giolitti, Massimo Caprara, Renato Mieli, cioè la strada della rottura, egli, al contrario seppe reprimerle e avallò l’ortodossia del partito. Fu dunque per i carri armati sovietici a Budapest, contro gli insorti di Praga, contro Kruscev e la destalinizzazione, contro il Patto atlantico e così via. Le sue obiezioni non ebbe mai il coraggio di renderle pubbliche. A volte le lasciò scritte, consegnate alla segreteria della direzione, rinunciando a far politica ma salvandosi l’anima. Il frutto di questo atteggiamento è che al momento cruciale, dopo la caduta del muro di Berlino e la svolta della Bolognina, quando fu necessario misurarsi, i «miglioristi» non raccolsero che il quattro per cento e subito si accodarono al vincitore Occhetto. L’opportunismo, la mancanza di coraggio è il segno di Giorgio Napolitano.
Circa i rapporti tenuti con il Psi, al di là delle scene idilliache raccontate da qualche agenzia di cene tra famiglie e affettuosità varie tra Giorgio e Bettino, contano le cose scritte e pubblicate. Sono un’infinità e non posso che scegliere e riassumere.
Posso cominciare da un’autobiografia di Napolitano il quale scrive che «fu proprio l’assunzione della presidenza del Consiglio da parte di Craxi a bruciare di colpo tutte le reciproche aperture e i pur cauti avvicinamenti tra Pci e Psi che avevano caratterizzato la fase precedente... L’ascesa di Craxi al governo significò la definitiva conferma di un disegno perverso...». A tanto non era arrivato nemmeno Berlinguer e il suo «Iago» Antonio Tatò. Napolitano ignora che tutte le aperture erano state del Psi (avallate persino da Scalfari!) e respinte da Berlinguer; e ignora che il governo Craxi, contrastato dal Pci fino al referendum sulla scala mobile, ha salvato l’Italia dalla recessione e l’ha portata fra le grandi potenze industriali della terra.
Negli anni caldi che seguirono la caduta del muro di Berlino le posizioni di Napolitano furono tutte riprovevoli. Lo scrive a chiare lettere Bettino Craxi: «Quando Giorgio Napolitano, che ha i peli sulla lingua - scrive Craxi a proposito dell’ingresso del Pci-Pds nell’Internazionale Socialista - dice: “Pesavano le preclusioni di Craxi e parla di preclusione faziosa”, non dice assolutamente la verità, anzi è un bugiardo di tre cotte. Le cose andarono in modo ben diverso...». Bettino non ostacolò ma favorì l’ingresso dei comunisti; furono questi, al contrario, che presto stracciarono il patto firmato che li impegnava a favorire l'unità fra i due partiti.
Responsabile per anni e anni della politica internazionale del Pci, Napolitano ha avallato tutte le posizioni sovietiche e quando è scoppiata tangentopoli si è ben guardato dal dire una sola parola sui finanziamenti dell’Urss e sui traffici del Pci con i Paesi dell’Est dei quali non poteva non sapere.
Da presidente della Camera ha posto la sua firma su tutti i bilanci falsi prodotti dai partiti senza mai obiettare nulla, acconsentì che un Parlamento allora definito degli inquisiti (risultati poi negli anni nella quasi totalità tutti assolti) rinunciasse all’immunità parlamentare, uno strumento fondamentale di democrazia e di libertà. E quando la Camera negò le autorizzazioni a procedere contro Craxi, e Occhetto fece il finimondo, ritirando i ministri del Pds dal governo eletto tre giorni prima, Napolitano si accodò e propose e fece approvare dalla Commissione per le autorizzazioni, l’abolizione del voto segreto, cosa che il fascismo aveva mantenuto fin quasi alla fine.
Chi ha visto una differenza tra D’Alema e Napolitano ha fatto un grave errore. Napolitano è un comunista ortodosso più di D’Alema che aveva sette anni quando Napolitano inneggiava ai carri armati sovietici a Budapest che avevano salvato la pace nel mondo e stroncato i controrivoluzionari ungheresi.
L’unica speranza è che un anziano signore di 81 anni trovi la forza per rinnegare la sua vita di uomo di parte e per mediare con equilibrio gli inevitabili contrasti e conflitti ai quali va incontro la società italiana.

Ma è solo una speranza.

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