Indignados nel ’68, padroni oggi

Metamorfosi dei contestatori: gli stessi che scendevano in piazza ora dirigono banche e giornali

Indignados nel ’68, 
padroni oggi

A vent’anni ribellarsi è giusto, dopo i quaranta diventa un po’ patetico, e oltre i sessanta è puro folklore: è così dai tempi della jeunesse dorée ateniese che s’innamorava dei sofisti e contestava da sinistra (o da destra?) il governo democratico di Pericle. In fondo, non si tratta che di una replica pubblica del più normale fra i comportamenti privati dell’adolescenza: contestare i genitori per definire la propria identità di persone adulte. Dopodiché, si pensa a far carriera. Non è il cinismo a parlare, ma il realismo: a un certo punto bisogna rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Così, molti contestatori hanno fatto carriera all’interno di quello stesso sistema che volevano abbattere: non per opportunismo, ma perché la maggior parte delle persone normali, dopo aver litigato coi genitori, è felice di andarli a trovare la domenica, quantomeno per liberarsi dei figli.
Semmai, la contestazione è un’ottima scuola, spesso la migliore. Dal Dopoguerra agli anni Settanta tutto l’Occidente è stato attraversato da movimenti di protesta giovanili che si sono intrecciati alla nascita o alla riscoperta di un fenomeno culturale di primaria grandezza: la Beat generation e l’esistenzialismo, la Scuola di Francoforte e Lacan, il jazz e il rock. In altre parole, i contestatori erano degli intellettuali: studiavano molto, e la loro curiosità un po’ secchiona li spingeva ad esplorare territori e àmbiti sconosciuti alla ristretta provincia culturale dei loro padri. È per questo che i gruppettari hanno fatto carriera: perché erano fra i più bravi della loro generazione.
Il catalogo è ampio e variegato: dal presidente di Rcs ed ex direttore del Corriere Paolo Mieli all’«infedele» Gad Lerner, dal manager e banchiere Pietro Modiano al superconsulente finanziario Sergio Cusani, poi tra i protagonisti del processo Enimont, da Paolo Liguori ad Erri De Luca, passando da un Massimo D’Alema che confessa di aver lanciato una molotov e da un Giuliano Ferrara immortalato negli scontri romani di Valle Giulia, buona parte dei cinquanta-sessantenni che contano sono stati in gioventù accesi contestatori.
Ma in Italia il Sessantotto è diventato il pretesto per una crescita smisurata della spesa pubblica. È infatti per rispondere alla contestazione che i governi a guida dc inventano l’ope legis, quel meccanismo infernale tuttora tristemente in vigore in base al quale ogni «precario», prima o poi, matura il diritto all’assunzione. Il risultato, come intuirebbe anche un bambino, è la moltiplicazione del precariato, oltreché della pressione fiscale. Ma il trucco, almeno finora, ha funzionato: e «precario» vale oggi molto più di proletario.
E qui veniamo al punto: i contestatori di oggi non vogliono cambiare il mondo, vogliono il posto fisso. Chiedono soltanto di avere per sé i privilegi che i loro genitori hanno ottenuto dallo Stato in cambio del consenso elettorale. Che l’assistenzialismo sia giusto o no, non se lo chiedono neppure. Non gli importa che i soldi siano finiti, o che i mercati siano liberi. E soprattutto non si chiedono che cosa possano fare per se stessi. Ragionano come sudditi, non come cittadini: il principio di responsabilità è loro sconosciuto.
Non per caso si chiamano «indignati». Che cos’è la dignità, e da che cosa è messa a repentaglio? Una battaglia politica, cioè pubblica, non dovrebbe mai ricorrere a categorie etiche, che per definizione sono private. Dignità e indignazione sono oggi divenute armi contundenti a sinistra, dopo esserlo state per secoli a destra. «Indegni» sono stati, nel corso del tempo, le streghe e gli eretici, gli operai comunisti e gli omosessuali, il sesso prima del matrimonio e persino la minigonna. Adesso tocca all’altra parte, alle banche e al governo.

Indignarsi è indegno, perché viene meno alla regola fondamentale: sforzarsi di comprendere, e trattenersi dal giudicare. A dirla tutta, dovremmo indignarci soltanto di noi stessi, e comportarci di conseguenza. Manifestare è divertente, e qualche volta è utile: ma lasciamo l’indignazione ai preti e agli spretati.

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