«Gli intellettuali? Sono la rovina del nostro cinema»

Francesca Scapinelli

Di cinema, secondo lui, non è bene parlare tanto: si rischia di rovinarlo. Per il regista statunitense David Lynch un film si guarda, si gusta, si apprezza o meno, «ci si entra dentro abbandonandosi alla storia che ci racconta». Ma interpretare, cercare di scovare questo o quel messaggio nascosto, a sua detta non è utile. Non è quindi stato facile, per Antonio Monda e Mario Sesti - curatori della rassegna di Musica per Roma e Studio Universal «Viaggio nel cinema americano», che l’altra sera ha ospitato all'Auditorium Parco della Musica proprio l’affollatissimo incontro con Lynch - indurre il grande cineasta a raccontarsi, parlare di sé e soprattutto delle sue opere, tra cui la serie di successo Twin Peaks e film di culto come The Elephant Man, Velluto blu e il recente Mulholland Drive.
«Si discute eccessivamente di cinema e per me invece l’approccio intellettuale non conta - ha spiegato Lynch davanti a una platea di oltre trecento persone, soprattutto giovani -. Le parole appartengono alla prima fase, la sceneggiatura. Una volta che un film è finito, perché tornare indietro?»
Ciò che invece conta è l’idea alla base del film, paragonata dal regista a un pesce: «Il punto è acchiapparlo e poi saperlo cucinare bene». «L'idea - aggiunge Lynch - può partire da qualsiasi cosa, è come se fosse già lì e aspettasse solo di essere afferrata». E naturalmente lo spettatore, in base al proprio intuito, potrà scorgere in un film elementi anche diversi rispetto a quelli «cucinati» dal regista.
Quel che poi conta, al di là delle parole, è «la capacità del cinema di metterci di fronte a una storia e a un modo di raccontarla, di farci astrarre e entrare gradualmente in un altro mondo».
«L’esperienza delle luci che si abbassano, delle tende che si aprono e di un mondo che si dischiude e in cui pian piano entriamo, ecco il cinema». Riflessioni che chiariscono come mai Lynch abbia espressamente chiesto che il dvd di Mulholland Drive non prevedesse la ripartizione in capitoli e quindi la possibilità di selezionare le scene. «Altrimenti si perde la magia di quell’esperienza, il fatto di entrare in una storia e viverla - ha chiarito a chi gli domandava il perché della scelta, controcorrente in un mercato in cui non esistono dvd senza «chapters», «extras» e altre opzioni -. È la tristezza del cinema pietrificato e fatto a pezzi».
Sollecitato dalle domande dei conduttori, Lynch ha inoltre ripercorso gli inizi della propria carriera («volevo fare il pittore ma una notte, dipingendo un giardino, realizzai quello che desideravo fare davvero: una pittura in movimento e con il sonoro, che per me è fondamentale») e, tra le altre cose, i rapporti con Dino De Laurentiis, produttore del suo Dune nel 1984 («un uomo di grande energia, da cui si impara molto, ma avevamo idee diverse») e con Mel Brooks, produttore di The Elephant Man nell’80 («un uomo che mi ha sempre sostenuto, al 100%»).
Ancora, l’ammirazione per Federico Fellini («ha creato interi e meravigliosi mondi, che ho amato penetrare») e la passione per il digitale, tecnologia con cui sta girando il nuovo film («anche se non raggiungerà mai la qualità dei 35 mm, il digitale è liberatorio mentre con la pellicola tutto è pesante e ingombrante»).
La serata è proseguita con la proiezione di scene di alcuni film, da Strade perdute a Cuore selvaggio e Una storia vera, inframezzate dal commento dello stesso regista e dagli applausi di una platea sempre più infervorata.

Molte le domande del pubblico, che alla fine hanno avuto la meglio sulla reticenza di Lynch. «Il mio film preferito? Eraserhead, anche se so che non è adatto a tutti i palati!» Ci sarà un sequel di Twin Peaks? «Tutto è possibile».

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