Il giorno in cui l'Inter ha vinto lo scudetto è stato il giorno in cui ha perso, era a Bergamo, era sotto 3-0 dopo 45 minuti, ed è stato il giorno in cui José Mourinho ha chiarito alla sua squadra che lui non era un pirla e che il passato non sarebbe tornato mai più. Lì a Bergamo, negli spogliatoi, José ha parlato dello scudetto vinto in segreteria, di quello vinto contro nessuno e di quello all'ultimo minuto, insomma tutto quanto costruito dal suo predecessore e di cui ad Appiano Gentile si vedevano ancora le gigantografie. Lì, quel giorno, in quel momento, José Mourinho ha rischiato. E ha vinto. Intendiamoci: il tecnico portoghese non ha mai confermato lo spiffero uscito dagli spogliatoi della sua squadra. Ma prima ha fatto intendere che ne avrebbero parlato i suoi avvocati, poi invece da Chiambretti in tv ha fatto intendere che lui certe cose le aveva dette, tant'è vero che se n'è vantato: «Tre giorni dopo abbiamo battuto la Roma in coppa Italia, a volte un allenatore deve motivare la squadra anche in maniera rude. Si vede che è servito». È servito. Così, ora che José Mourinho ha lo scudetto sul petto, non resta che il dibattito su cosa rimane di questo Anno Uno dell'era portoghese e su cosa debba fare davvero l’Inter per fare il salto di qualità che cerca. Ovvero diventare una squadra da Champions. Non c'è dubbio che José Mourinho avesse in mente un'altra Inter e che invece sia stato costretto a una retromarcia in autostrada dopo aver appreso che Mancini e Quaresma non erano il Mancini e il Quaresma che lui aveva chiesto a Moratti. Il tutto è stato condito alla restaurazione del rombo manciniano con Stankovic, quello che doveva andare alla Juventus, diventando titolare inamovibile. Risultato: l'Inter ha giocato e vinto con un modulo collaudato e in più occasioni ha giocato peggio. Però è anche vero che solo chi non cambia idea finisce per perdere. E José non è uno che perde spesso. È chiaro però che questa squadra, questo gruppo - fenomenale s’intende - è arrivato al punto: ha vinto anche per inerzia, ma l’inerzia, prolungata con merito da Mourinho a Bergamo, è finita. Ancor prima della fine del campionato. Ci vuole una rivoluzione insomma, non epocale certo, ma sempre di rivoluzione si tratta: non certo per accontentare gli incontentabili (dire che altre squadre valgono di più perché giocano meglio, è un puro esercizio di bile contro Mourinho), ma per riuscire a lanciare la Grande Sfida, quella vera, quella per cui Moratti e Mourinho hanno deciso di unirsi: la Champions League. E anche in questo caso, dire nel momento dello scudetto che «della Champions non me ne frega niente» suona un’esagerazione dettata dall’entusiasmo. Anche perché, caro Presidente, è stata proprio la sconfitta contro il Manchester United ad aprire la vera crepa nelle sicurezze nerazzurre e a rompere l’incanto di un rapporto, quello con Ibrahimovic, che da quel giorno non è più lo stesso. Per questo insomma l’Inter dei quattro scudetti consecutivi è un’Inter da rifare, così come ha detto ieri Marco Tronchetti Provera, che essendo l’altro grande azionista quando parla dice cose non banali. È stato lui infatti a fare il prezzo per Ibra («Il presidente Moratti ha detto 100 milioni, no?»), è stato lui ieri ad aggiungere: «La squadra è solida, ci vuole qualche inserimento. Il sogno è Messi, che si inserirebbe molto bene, ma credo che rimarrà un sogno nel cassetto... La mia speranza è che per il prossimo campionato possano arrivare altri due ragazzi come Balotelli e Santon».
Infatti: Mourinho ha già detto che un paio di baby si affacceranno in prima squadra (un nome: l’attaccante Destro), ma che servono un difensore (Bruno Alves?), due centrocampisti (diciamo Mikel e Thiago Motta) e un paio di attaccanti (azzardiamo Milito e Quagliarella). Certo, poi c’è Messi, ma quello rientra nel discorso Ibrahimovic. In pratica: una vera e propria rivoluzione. Anche questo sarebbe un rischio? Certo. Ma non si partirebbe da «zero tituli»...Inter, ecco perché ora serve una rivoluzione
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