Intercettazioni, nuovo autogol di Bruti

Enrico Lagattolla

Milano«Adesso ricostruisco cosa è successo e poi non vi dirò niente»: così martedì pomeriggio, scuro in volto, Edmondo Bruti Liberati aveva respinto i cronisti che gli chiedevano come fosse possibile che tre conversazioni telefoniche di Silvio Berlusconi con tre fanciulle del «Rubygate» fossero finite agli atti del processo e da lì sulla prima pagina del Corriere, con buona pace dell’immunità parlamentare. Ma ieri la lettura dei giornali ha convinto Bruti che qualcosa bisognava pur dirla. Sotto il tiro delle polemiche del centrodestra ma anche sotto il fuoco amico di Luciano Violante, che giudicava ingiustificabile il deposito dei nastri di Berlusconi, il procuratore della Repubblica è uscito allo scoperto.
Come era prevedibile, non ha puntato sulla tesi dell’errore materiale, che avrebbe esposto i suoi pm al rischio di una azione disciplinare, ma ha rivendicato per intero il buon diritto della Procura a trascrivere e depositare le telefonate. E, visto che c’era, ha reso noto che per la fuga di notizie non è solo la Procura milanese a essere sospettabile, ma anche lo staff difensivo del presidente del Consiglio. Niccolò Ghedini e Piero Longo, fa sapere Bruti, erano gli unici ad avere a disposizione i brogliacci (cioè i riassunti) e le registrazioni delle telefonate del loro illustre assistito.
La reazione di Ghedini e Longo non si fa attendere. I due avvocati rimandano al mittente i sospetti, e chiedono che «invece di perdere tempo in comunicati», Bruti apra una inchiesta, o magari la apra un’altra Procura: modo educato per sostenere che i principali sospetti sono proprio i pm milanesi e quindi a condurre l’inchiesta sullo scoop del Corriere dovrebbe essere la magistratura di Brescia, competente per le malefatte dei colleghi meneghini. Volano gli stracci, insomma: e su un fronte dove la Procura si sentiva relativamente tranquilla. Ad uno scontro frontale con lo staff del Cavaliere su ogni aspetto del processo - dal calendario delle udienze, alle questioni procedurali, agli interrogatori dei testimoni - Bruti e i suoi erano pronti. Lo erano meno ad arrivare in aula con l’ombra di una violazione delle prerogative del parlamentare Berlusconi: destinata, come si è visto, ad allarmare anche ambienti politici di solito non ostili ai pm.
Così è stato deciso di correre ai ripari. Dalla sua parte la Procura aveva la complessità quasi inestricabile della materia, che rende legittime tesi anche assai distanti su come debbano venire trattate le intercettazioni in cui accidentalmente compaia un parlamentare. Così ecco la linea enunciata ieri pomeriggio da Bruti ai cronisti: le telefonate tra le ragazze e il premier sono state trascritte perché utilizzate per chiedere - durante le indagini preliminari, quando della bufera che stava per scatenarsi sul premier non sapeva quasi nessuno - la proroga delle intercettazioni medesime al giudice preliminare Cristina Di Censo. Nel marzo scorso, poi, «a tutela dei diritti della difesa», brogliacci e nastri sono stati consegnati a Ghedini e Longo.
Replicano i difensori del capo del governo: «È assai peculiare che ci si ricordi dei diritti della difesa soltanto per depositare atti illegittimi ed irrilevanti processualmente ma di esclusivo interesse mediatico», e invocano l’apertura di una inchiesta. Ma la partita vera che si intravede dietro la pubblicazione delle intercettazioni è un’altra, e investe in pieno la sostanza del processo che ripartirà il prossimo 31 maggio. Nella sua conferenza stampa, Bruti Liberati torna a ricordare che all’epoca in cui vennero intercettate le chiamate tra le tre ragazze e Berlusconi, tra l’agosto e l’ottobre 2010, il presidente del Consiglio non era ancora indagato (il suo nome sarebbe stato iscritto in gran segreto solo il 21 dicembre). Non era lui, insomma, il bersaglio delle intercettazioni, in cui sarebbe incappato per caso. Non è vero niente, sostengono invece i legali: l’unico e vero obiettivo dell’inchiesta era già da allora Silvio Berlusconi, le intercettazioni vennero realizzate con l’obiettivo specifico di incastrare il presidente del Consiglio, e il ritardo di quattro mesi (almeno) con cui il nome di Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati è una violazione bella e buona.

E se Berlusconi fosse stato indagato contemporaneamente a Emilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora - ricordano i legali - il processo con rito immediato che si è aperto ieri a Silvio Berlusconi sarebbe stato impossibile.

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