Per i partiti è la resa. Così comincia la Terza Repubblica

ll presidente uscente e rientrante ha accettato di prolungare il suo mandato, i partiti gli si affidano. Può sembrare un rituale da Prima Repubblica e invece rappresenta molto probabilmente l'avvio della Terza

Per i partiti è la resa. Così comincia la Terza Repubblica

Come intimava Beppe Grillo la nomenklatura s'è arresa. A Giorgio Napolitano. Il presidente uscente e rientrante ha accettato di prolungare il suo mandato, i partiti gli si affidano - tranne i tonitruanti grillini - con ostentati rispetto e fiducia. Può sembrare, questo cui abbiamo assistito, un rituale da Prima Repubblica, e invece rappresenta molto probabilmente l'avvio della Terza.

È una mutazione sostanziale, che pareva fosse stata avviata con la bufera di Tangentopoli. Si vide poi che quel trauma, nonostante la sua gravità, aveva lasciate intatte alcune istituzioni fondamentali, a cominciare dal Quirinale. Un potere notarile insieme rassicurante e inquietante. La gente avvertiva l'insufficienza e l'obsolescenza d'un assetto istituzionale ereditato da un altro secolo e da un altro millennio, ma ogni tentativo di cambiarlo si scontrava con la resistenza del macigno burocratico-politico e contro gli inni a una Costituzione elogiata come la più bella del mondo.
Ma la vita e la storia premevano. E proprio a uno strenuo difensore e protagonista della Prima e della Seconda Repubblica come Napolitano è toccato d'accertare di entrambe la malattia, che era poi un'agonia. Gli interventi del Quirinale si sono accentuati. A un certo punto - soprattutto dopo la fine dei governi Berlusconi - la moral suasion è andata somigliando a un diktat, la costruzione statale era apparentemente intatta ma al suo interno diventava irriconoscibile, lo zelo burocratico non bastava - quando c'era - per nascondere lo sfacelo. Le caste si difendevano dal rinnovamento, i cittadini si difendevano, come potevano, dalle caste, il declino era evidente.

Ci voleva una svolta, anche brutale. La pretendevano gli italiani. L'ha capito Beppe Grillo, che però s'è rassegnato a indicare come suo campione nella gara presidenziale Stefano Rodotà, notabile d'antico stampo e di fresca ambizione (i due requisiti non sono incompatibili). L'ha capito, alla sua maniera guappa, il Cavaliere. Non l'ha capito Bersani: che lanciava appelli al cambiamento ma nella sostanza si chiudeva a riccio nel suo involucro di egoismi, di nostalgie, di utopie. Non solo il popolo ma la Storia con la S maiuscola volevano che terminassero due stagioni del dopoguerra e se ne aprisse una terza.
Volevano che fossero profondamente riformati gli strumenti di governo, invocavano un presidente che fosse espresso dal popolo e non dai grandi elettori e che poi disponesse dei poteri necessari per guidare lo Stato. Non un notaio da sistemare dopo il Quirinale nella poltrona di senatore a vita ma uno che - come avviene negli Stati Uniti o in Francia - può rimanere in carica, se i cittadini lo vogliono, per un secondo mandato. Un distacco netto dalla presidenza ricca d'orpelli e povera di autentico comando scritta nella nostra Magna Charta.

Quel distacco Napolitano ora lo certifica. Forse, ripeto, è stato protagonista di questo evento controvoglia. Ma lo è stato. Non può spettare a lui, per motivi anagrafici, il compito immane di raccogliere questo messaggio e tradurlo nella vita quotidiana d'una collettività disastrata. Gli avvenimenti hanno una loro logica misteriosa, e hanno voluto che la fine del primo settennato di Napolitano coincidesse con i maneggi per la formazione d'un nuovo governo. Il che ha complicato tutto. O forse ha semplificato molto.

Grillo grida al colpo di Stato in negazione della volontà di popolo.

I cittadini accalorati del gruppo che davanti a Montecitorio urlava le doti mirabili di Rodotà, sicuramente si erano stremati - benché non ne dessero proprio l'idea - nello studio di saggi come Le fonti di integrazione del contratto o Questioni di bioetica. Vorrà dire che questi insegnamenti preziosi non verranno dal Quirinale. Ce ne faremo una ragione.

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