Ignoravo che Giuliano Zincone fosse gravemente malato, altrimenti gli avrei chiesto scusa prima che fosse troppo tardi. È morto due giorni fa e l'ho scoperto ieri leggendo il ricordo che ne ha fatto Francesco Cevasco sul Corriere della Sera. Ci sono rimasto male. Non immaginavo che l'irreparabile sarebbe successo tanto presto. Pensavo, anzi, che l'avrei preceduto nel viaggio definitivo, cosicché ho sempre rimandato a cuor leggero il momento di scrivergli due paroline per chiudere una piccola polemica ingigantita dall'incomprensione.
Per anni lavorammo insieme. Entrambi inviati del Corriere, Giuliano principe e io principiante, un paio di volte ci trovammo impegnati all'estero sullo stesso servizio; in Messico, in occasione dei Mondiali di calcio 1986, e in Corea, Olimpiadi 1988. Il nostro incarico non era sportivo in senso stretto: ci toccava descrivere i contorni, il clima, i costumi; raccontare non le manifestazioni ma i luoghi in cui si svolgevano. Ci spartivamo il da farsi. Zincone era la star e gli spettavano le cronache degli avvenimenti più importanti, a me rimanevano le frattaglie. Le gerarchie stabilite dall'anzianità e dalla bravura andavano (e vanno ancora) rispettate.
La cerimonia d'inaugurazione dei Giochi fu affidata a lui. Ma alle 4 di mattina (si tenga conto del fuso orario) fui svegliato dagli squilli del telefono: era Giulio Anselmi, vicedirettore. Un po' trafelato mi comunicò che Giuliano era irreperibile, non riuscivano a rintracciarlo. Per cui ricevetti l'ordine perentorio di buttare giù 70 righe per la prima pagina su una cerimonia che non avevo seguito. Nel nostro mestiere capita anche di peggio: in mezz'ora riempii un paio di cartelle, inventando di sana pianta lo sfavillante spettacolo cui non avevo assistito, e le dettai agli stenografi, dato che per imperizia non usavo i computer da poco in commercio (e non li uso tuttora).
La mattina seguente bussai alla porta di Giuliano e un po' nervosetto gli chiesi che cosa avesse combinato: «Ieri eri latitante e mi hanno rifilato un compito che era tuo». Scoppiò a ridere: «Dormivo della grossa, ma non lagnarti: così ti ho valorizzato». Replicai alla Grillo: «Ma vaffa...».
In Messico le cose erano andate meglio. Ci avevano destinato a Guadalajara, dove giocavano le squadre favorite: Brasile e Francia. Hotel fantastico. Occhio, però, a non mettere in bocca neanche un goccio d'acqua che non fosse minerale, con la quale ci lavavamo persino i denti. Forte era il rischio della vendetta di Montezuma, esiziale per una parte del corpo assai delicata.
Di quel Paese color pomice non sapevamo nulla, ci servivano informazioni per i nostri reportage. Che fare? Conoscemmo due sorelle, figlie di un avvocato di rango, con le quali stringemmo amicizia. Praticamente stavamo sempre con loro. La sera il padre ci invitava a cena nella sua villa di pregio, in una zona residenziale. E ci riempiva la testa di nozioni e notizie. Una pacchia. A scanso di equivoci preciso che non eravamo «fidanzati in casa» delle ragazze. Diciamo che la compagnia era piacevole. Quando partimmo per rientrare in Italia, all'aeroporto le sorelle lacrimavano. Baci, abbracci. Una storia innocente e, quindi, indimenticabile.
Il rapporto fra Zincone e me divenne quasi fraterno. Poi si guastò per una fregnaccia. Era, mi pare, il 1999. Dirigevo il Quotidiano Nazionale (Carlino, Nazione, Giorno) quando arrivò un dispaccio di agenzia: il nome di Giuliano compariva nella cosiddetta lista Mitrokhin. Pubblicammo per intero l'elenco. E lui si arrabbiò moltissimo. Al punto che mi querelò. Devo aggiungere che fui assolto (capita, talvolta, anche se raramente). Ma, al di là di questo dettaglio, capisco la sua ira. Era impossibile che egli fosse stato al soldo dell'Urss e avrei potuto risparmiargli l'onta di una citazione in quel contesto. Invece non lo feci in ossequio a una malintesa completezza d'informazione.
Da allora non ci vedemmo più. Spesso fui tentato di telefonargli per rappacificarmi, ma all'ultimo istante mi tirai sempre indietro. Per imbarazzo. Ora gli porgo le mie scuse fuori tempo massimo con un rimpianto: non saprò mai se le avrebbe accettate.
Zincone non era soltanto un grande giornalista, una penna d'oro come non ne nascono più, ma era una persona specchiata, elegante e di spessore. Peccato che avesse smesso presto di scrivere assiduamente per il Corriere. Il motivo mi è oscuro. Posso dire di non avere mai letto un suo pezzo mediocre. Da lui c'era solo da imparare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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