nostro inviato a Bremate (Bergamo)
La svolta, la seconda di questa storia, non c'è. Non ancora. Il pm Letizia Ruggeri prova a scardinare il silenzio impenetrabile del grande indagato. Ma non funziona. Massimo Giuseppe Bossetti tace, o meglio, non risponde. Una decisione che pare interlocutoria: potrebbe essere la scelta di chi si ostina a negare tutto, sfidando l'inverosimile, ma più banalmente la tattica pare prevalere sulla strategia: il difensore Silvia Gazzetti, che poi è l'avvocato d'ufficio confermato dal cliente (in attesa di un grosso calibro) potrebbe aver suggerito a Bossetti di tenere la bocca chiusa. E guadagnare tempo, almeno fino a oggi e all'appuntamento decisivo col gip: il giudice ascolterà l'uomo, poi deciderà se confermare il fermo disposto dal pm oppure no. Insomma, prima di imboccare una strada è bene cercare di capire di che carte disponga l'accusa.
Ma la partita pare segnata. Il Dna di Ignoto 1, come lo chiamavano gli investigatori fino alla settimana scorsa, è quello del muratore di Mapello. E ieri, controprova, il test del Dna, effettuato a tempo record, sul padre anagrafico del presunto killer ha dato esito negativo. Massimo Giuseppe non è figlio di Giovanni ma di Giuseppe Guerinoni, l'autista di Gorno morto nel 1999 e sulla cui tomba si era incartata per lungo tempo l'inchiesta. La signora Bossetti, Ester Arzuffi, nega, forse anche a se stessa, la cruda verità e difende il suo segreto, ma la scienza la smentisce. L'albero genealogico di due famiglie dev'esser riscritto fra imbarazzi e vergogne, ma ormai è un dettaglio privato in una tragedia pubblica.
La procura ha pescato l'assassino di Yara. L'individuo che la sera del 26 novembre 2010 la seviziò, cercò di violentarla, l'abbandonò agonizzante in un campo di Chignolo d'Isola.
«Può darsi che l'abbia adocchiata nei giorni precedenti - spiega al Giornale un investigatore - magari si erano parlati oppure no. Forse l'ha avvicinata in quel momento ed è stato educato, convincente, garbato. Non lo sappiamo ancora, stiamo cercando la traccia di un loro precedente contatto, ma non l'abbiamo ancora trovata e non è detto che ci sia». Ecco, l'indagine gira intorno a questo interrogativo.
I giornali ripescano una vecchia confidenza raccontata a suo tempo dal fratellino alle forze dell'ordine: «Mia sorella aveva paura, si sentiva osservata». Peccato che quella suggestione, già scandagliata, non avesse portato a nulla.
Dunque, si scava nella vita di Bossetti e gli inquirenti tornano a Brembate, visitano negozi e bar, chiedono di Bossetti, fanno vedere la sua foto. È un pellegrinaggio: il centro estetico, l'edicola, il bar, l'emporio di fotografia. Se lo ricordano quasi tutti, da queste parti veniva spesso, la sua auto sarebbe stata notata molte volte sulla strada che costeggia la Città dello sport, ultimo indirizzo conosciuto di Yara. Però gli elementi vanno pesati: Bossetti viveva a Mapello, a pochi chilometri di distanza, e soprattutto in passato aveva abitato con la sua famiglia d'origine proprio a Brembate. Dunque la confidenza con quei luoghi se la portava dentro. Semmai questo elemento vale al contrario: dopo il delitto le sue apparizioni in quel fazzoletto di strade, a due passi dalla villetta dei Gambirasio in via Rampinelli, si diradano. Di fatto, Bossetti sparisce da Brembate. Normale precauzione criminale, verrebbe da dire. Ci sta come ci sta che Yara abbia respirato prima di morire polvere di calce: coincidenza, anche quella, favorevole agli investigatori perché Bossetti è un muratore.
Dunque, si va avanti a tappeto: interrogatori, compreso quello di Fulvio Gambirasio, papà di Yara, ricerche d'archivio, verifiche sul campo. In particolare nella zona, cruciale, della palestra.
Tutto poggia sul Dna: l'abbondante materiale biologico trovato sugli slip di Yara, anche sulla parte interna. Materiale che ha resistito a tre mesi di intemperie. Potrebbe essere il Dna a convincere Bossetti a cambiare atteggiamento.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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