Anche il test del Dna mente: l'errore rovina una famiglia

In ospedale gli dicono che è lui il padre del bambino. Tre anni dopo ripete l'esame genetico e scopre di non esserlo più

Anche il test del Dna mente: l'errore rovina una famiglia

Di questa storia non importano né i nomi né i particolari. Quel conta in fondo sono solo l'inizio e la fine. Un prologo che comincia con un dubbio: quello sulla reale paternità. E un the end dal sapore amaro e drammatico che vede suo malgrado protagonista un ragazzino. Un adolescente incolpevole che ha scoperto di aver chiamato papà un uomo che in realtà suo padre non era. «Miracoli» della scienza, o meglio, in questo caso devastanti storture di metodi reputati infallibili. Manco fossero matematica.
La vicenda in questione dimostra il contrario, con gli occhi di oggi l'incredibile: anche un «certissimo» test del Dna può fallire. Stavolta in ballo, perlomeno, non c'era un potenziale assassino da rinchiudere a vita. Nessuno potrà gridare allo scandalo giudiziario. Eppure più di una vita è stata rovinata.
Tutto comincia a Como, quando nel 1999 una ragazza rimane incinta. Non ha un fidanzato ufficiale, perlomeno lui non si ritiene tale. Parla di «rapporti occasionali», tanto da decidere di appurare se davvero quel bimbo sia davvero suo figlio. Eccolo così, nel 2000, subito dopo il parto della compagna, rivolgersi all'ospedale Sant'Anna per trovare la certezza. Gli esami di laboratorio gliela danno. Senza se e senza ma: al 99,9 per cento è proprio lui il padre naturale sentenziano gli esperti di laboratorio. Nonostante questo la coppia non si sposa. Nemmeno convive. Ma l'uomo si comporta da vero papà. Il bambino trascorre intere giornate con lui e con i nonni. Amato, accudito, educato, proprio come si fa normalmente. Tutto ciò per tre anni. È infatti il 2003 quando l'uomo - per quale ragione non si sa - chiede di ripetere il test del Dna. Il risultato è agghiacciante, stavolta: no, non è lui il genitore biologico.
Il resto della storia si può immaginarlo. Padre e nonni spariscono dalla vita del piccino e di sua madre, lei unica semper certa. Sola e abbandonata definitivamente, qualche anno dopo la donna decide di rivolgersi ai giudici. Per far causa all'ospedale che aveva sbagliato il primo test. Vince la causa. Ora in Appello (il processo si è tenuto a Milano) la conferma della sentenza di primo grado con tanto di aumento del risarcimento quantificato adesso in 50mila euro che l'ospedale dovrà pagare al bebè oggi quattordicenne. Alla madre e ai suoi legali, però, non basta. Chiedono che venga riconosciuto un danno indipendente e diverso da quello biologico, un danno per l'interruzione del vincolo parentale, come se il genitore fosse morto. Così faranno ricorso in Cassazione.
«Per il bimbo quello è stato il padre per tre anni, un padre che è venuto improvvisamente a mancare - commenta l'avvocatessa Giovanna Petazzi - per cui riteniamoche la lesione affettiva sussista comunque, indipendentemente dalla mancata morte del genitore».
Fuori dalla querelle giudiziaria resta lo sconcerto.

Fu lo stesso responsabile del laboratorio di Citogenetica, durante il primo dibattimento, a dire che nel 2000 la struttura comasca non disponeva di «kit commerciali idonei» all'esame del Dna. Ma per i giudici milanesi c'è di più: il Sant'Anna non avrebbe rispettato i protocolli e le raccomandazioni previsti. Un caso isolato?

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