Cronache

40 anni di Bic

L'accendino usa e getta continua a godere di ottima salute. E si accende di entusiasmo

40 anni di Bic

Un po' come quando i quaranta toccarono a Tom Cruise. Un altro «piccoletto focoso» da maneggiare con cura, tenere in borsa come un santino. Ma questo le candeline se le accende da solo, per definizione: inclina la testa e gli parte la fiamma, sinuosa e ondeggiante come i fianchi di Penelope Cruz. L'accendino Bic compie quarant'anni. Era l'inverno del 1973: Marcel Bich, barone francese di origini italiane, produceva da ventotto anni oggetti «usa e getta», ma, a un accendino più piccolo e pratico del ricaricabile in metallo, non aveva ancora pensato nessuno. Oggi, gni giorno, 6 milioni di persone nel mondo comprano un accendino Bic. Ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino, quest'anno, il protagonista ne indossa uno per quasi tutto il film. Nel taschino della giacca, meglio di un fiore all'occhiello: violaceo e con un chiwawa incappucciato disegnato sopra. Affacciato, compagno di viaggio, feticcio discreto e decadente, nell'era della sigaretta elettronica. Prima di lui, appunto, il ricaricabile di metallo scomodo ed eterno. Un prototipo inventato in Germania, dal chimico Johann Wolfgang Döbereiner, esattamente centocinquanta anni prima. Il modello Bic produce un miliardo e mezzo di pezzi ogni anno. Fautore di uno strumento che con le sigarette gioca alla pari - perché tiene compagnia quel tanto che basta, poi finisce nel cassonetto - , nuoce alla salute assieme a loro, illude di ardere tabacco e paturnie. Ma non è nato per bruciare solo quelle. Quarant'anni, dunque: quelli in cui la vanità del maschio prende fuoco. E così mamma Bic ha creato un concorso («Design on fire») per i consumatori più creativi, che quest'anno hanno scelto quale delle diciotto grafiche meglio rappresenti il famoso accendino. Concorso già alla seconda edizione, ma che per il compleanno di Accendino Bic si è aggiudicato una mostra dedicata solo a lui, al MoMa di New York.
Sua stretta concorrente, nell'immaginario del mondo, solo la sorella penna. L'altra usa e getta. L'altra icona di una nuova filosofia del consumo, l'altro feticcio che s'immola nel ciclo indistruttibile della plastica, della trasformazione, del «non affezioniamoci troppo ché domani non funziono più». I simboli che, nel Dopoguerra e nell'Occidente post-sessantottino, hanno aiutato migliaia di sconosciuti ad attaccare bottone: «Avresti una penna in più?», ma, soprattutto, «Hai da accendere?». Poca differenza se ad avere le vampate, poi, era una sigaretta qualsiasi, una pagina di giornale per appiccare un falò, o un adolescente che, timido, ribatteva: «Mi dispiace, non fumo». Umberto Eco ne ha detto che «è nato volutamente brutto e diventato bello perché economico, pratico, unico esempio di socialismo realizzato che ha annullato il diritto di proprietà, e ogni estinzione di stato». Ma una volta, almeno, una, ha sfilato in passerella: è stato quando lo stilista Oscar Carvallo ne ha aggregato 8mila 521 esemplari (Miss Bic) e ne ha fatto un abito da sera.
Bic ha messo in tasca a tutti qualcosa che, comunque, già esisteva almeno dal 1908, anno in cui iniziarono a circolare accendisigari tascabili. Il fuoco da sigaretta o da illuminazione estemporanea, durante la Grande Guerra, era ancora legato ai fiammiferi. Ma la loro scintilla era così voluminosa, all'accensione, da essere spesso una traccia per i nemici. Finché lo Zippo (il tascabile con apertura a scatto, cerniera e linguetta) s'impose nella moda e nel consumo: era il 1932, in pieno monopolio del sigaro, e l'idea era venuta a George Blaisdell, in Pennsylvania. Ma come funziona? Una ruota dentata che sfrega una pietra focaia e produce scintille: è allora che il gas ingrossa la fiamma ambrata dal cuore blu che tutti conosciamo. C'è chi giura sia stato il primo fotogramma in assoluto nei ricordi bambino. Una goccia di luce d'oro, vaporosa, inafferrabile, apparsa per magia sopra il pollice di papà. Era piccola e aveva il fascino del proibito.

Oggi, quello dei quarant'anni.

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