RomaPier Luigi Bersani è una sicurezza. Il suo bello è anche il suo brutto. Le cose che ti aspetti, lui le dice. I voli pindarici, lui non li fa. Le sorprese, non sono nel repertorio. Di nuovo, se vogliamo, nel comizio di chiusura della festa nazionale del Pd a Reggio Emilia, c'è il vecchio, il ritorno all'antico, da leggere nelle sfumature. Più della coreografia che delle parole. Adottato lo stile Hollande, non resta che fare gli scongiuri. «Per tagliarci la strada si muoveranno forze antiche e nuove, o travestite di nuovo che si stanno già muovendo - dice avvertendo già aria di complotto -. L'atmosfera potrà farsi pesante, le acque torbide». Ma, sfodera l'asso a sorpresa il segretario, «No pasaràn! Non passeranno», e la platea emiliana si sente a un passo dalla rivoluzione.
Difatti lo sfondo dietro il leader è rosso, come un tempo. La cravatta, finalmente rosso fuoco, spicca sulla camicia bianca i cui polsini sono aperti: vezzo dal quale si deduce quel pizzico di consapevolezza di sé e d'orgoglio che s'è aggiunta alla prevedibilità modesta del politico che, gradino dopo gradino, ora si trova sulla soglia di un traguardo che non avrebbe mai potuto immaginare, Palazzo Chigi. E questo comunica al popolo, il segretario, con un po' d'enfasi: «Siamo pronti per governare, sarò io il prossimo premier, ci assumeremo la responsabilità davanti all'Italia e al mondo nel momento più difficile». Niente Monti-bis, dunque, e addio sogni di Casini.
Certo, c'è un piccolo e non irrilevante passaggio: il voto. E qui Bersani lascia intravvedere due o tre sfumature del nuovo corso. Giura ancora una volta «lealtà e niente trucchi» verso il governo Monti, ma poi s'attende l'investitura dagli italiani, investitura che suona come uno sbarramento nei confronti di qualsiasi scelta tecnica: «Toccherà agli italiani, e solo a loro, decidere chi governerà... Sempre naturalmente che Moody's o Standard and Poor's non aboliscano le elezioni sostituendole con una consultazione tra banchieri». Questione «basica» di democrazia, of course.
Ma come sarà questo Bersani-dopo-Monti? Proseguiremo il suo cammino, promette, ma «con più lavoro, più uguaglianza e più diritti». Geniale. Il leader snocciola un po' confusamente la sua futura, agognata, agenda di governo. Temi che pescano a piene mani dal senso comune e popolare, eppure finora pressoché sottovalutati o negati anche dal maggior partito del centrosinistra. E allora: «La finanza non deve più avere licenza di uccidere, deve mettersi al servizio e non al comando dell'economia e del lavoro, dobbiamo riprenderci la sovranità dai mercati». Eccetera. E poi? Un siluretto per la Bindi e cattolici della compagnia («Non c'è ragione che si neghi agli omosessuali il diritto all'unione civile o una legge contro l'omofobia»), cittadinanza ai figli degli immigrati, il classico richiamo al «vero spread» che è il divario tra Nord e Sud d'Italia, roboanti promesse di riparare alle tante storture e ai mali endemici italiani, stranamente mai notati dai governi di centrosinistra prima di questo momento fatale.
Non mancava, al termine, che il punto più atteso: la soluzione finale riguardo le beghe di partito. La risposta a Renzi, che ha continuato imperterrito anche ieri a reclamare il «ritorno a casa di tutto il gruppo dirigente» e invitato il segretario a «non aver paura di chi ti dice le cose in faccia». Purtroppo, il format alla Hollande non prevedeva risse da pollaio. Si è dovuto ricorrere al prevedibile, tradizionale appello all'unità del partito, «non indeboliamoci, non demoliamo il partito, figuriamoci se io ho paura», e il forte richiamo al «rispetto per tutti quelli che ci hanno portato qui» (leggi: i predecessori, per Renzi: i nonni). Le primarie saranno aperte, di coalizione, e si parlerà d'Italia. Per i conti personali ci sarà il congresso l'anno prossimo.
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