"Biagi non creò precarietà Ma la sua riforma del lavoro l’ha fatto odiare"

L’allievo del giuslavorista ucciso dalle Br lo ricorda a dieci anni dalla morte: "Chi lo commemora vuole cancellare il suo ruolo di consulente del centrodestra"

"Biagi non creò precarietà  Ma la sua riforma del lavoro  l’ha fatto odiare"

Roma Associare il nome di Marco Biagi alla precarietà è una bugia, ma sbaglia anche chi oggi commemora l’uomo e ignora l’eredità del riformatore. Michele Tiraboschi, allievo del professore ucciso il 19 marzo 2002 dalle Brigate rosse, condivide in pieno le parole di Marina Orlandi, moglie del giuslavorista.
Ci ha fatto ricordare che c’è stato, e forse c’è ancora, chi ha dato a Biagi la colpa della precarietà...
«Basta leggere le cronache di quei giorni per capire il clima di odio e intolleranza che ha circondato il suo lavoro».
Clima impensabile oggi...
«Vero, ma quello che registro con dispiacere, senza volontà di polemica, è che molti di quelli che lo commemorano, cercano di cancellare il suo ruolo di consulente di Roberto Maroni e Maurizio Sacconi».
La politica prima di tutto?
«Forse, ma in questo modo tirano un tratto di penna sulla gran parte dei suoi progetti. Lo descrivono come una brava persona, mite, ma non per rivalutarne la progettualità. Questa operazione è forse peggiore rispetto a quella che lo associa alla precarietà».
L’eredità di Biagi è solo politica e culturale o gli strumenti che ha progettato da professore sono ancora validi?
«La sua eredità è ricchissima ed è emersa con la legge Biagi, ma anche con provvedimenti successivi, le norme sull’arbitrato, sul processo del lavoro, l’intervento sull’abuso dei tirocini formativi della manovra Berlusconi. E anche il contestatissimo articolo otto della manovra estiva che consente alle aziende, attraverso la contrattazione territoriale e aziendale, di derogare alla legislazione. Era questa la filosofia di Biagi».
Manca una vera riforma degli ammortizzatori?
«Biagi intendeva realizzarla con il coinvolgimento degli enti bilaterali e una riforma in questo senso è stata fatta nel 2008, anche se oggi non è stata completamente attuata. Biagi sosteneva che qualunque intervento sugli ammortizzatori si deve basare su quella che lui considerava una regola di civiltà: chiunque prenda un sussidio deve essere disponibile ad accettare un lavoro congruo se gli viene offerto oppure una formazione adeguata. Questa regola è nella riforma del 2008 e oggi è il perno di qualunque intervento sul lavoro. Lo si deve a lui».
Il governo Monti si sta muovendo in questa direzione?
«Mi sembra in linea, con una differenza rilevante rispetto alla filosofia di Biagi. Era il primo a non accettare veti in tema di riforme, ma voleva il massimo consenso possibile. Diceva che la concertazione è difficile perché il consenso di tutti non si può sempre ottenere, ma sosteneva anche che il dialogo sociale è indispensabile. Oggi darebbe questo consigli al legislatore: non subire veti, evitare decisioni unilaterali».
Quali erano gli attacchi che lo colpirono di più negli anni della legge Biagi?
«Oltre agli episodi noti, lui sentì moltissimo l’attacco dei giuslavoristi. Basta leggere cosa dissero del Libro bianco per evidenziare l’isolamento e l’incomprensione nei confronti di un lavoro che oggi ha pieno riconoscimento. Abbiamo perso dieci anni e, soprattutto, abbiamo perso Marco Biagi».
Il professore incontrò anche chi lo capì..
«Sì, e il suo lavoro è andato avanti per la caparbietà di persone come Maroni, Sacconi. Ma io non dimentico la generosità che in quegli anni seppero dimostrare anche sindacalisti come Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Capirono le intuizioni di Biagi, che c’era del buono nelle sue idee. Ricordo una vera alleanza tra Biagi e Bonanni sul tema degli enti bilaterali, della sussidiarietà, sul welfare negoziale e sulla partecipazione dei lavoratori. Una piattaforma riformista solidissima».
Oggi lo riconoscono anche i giuslavoristi?
«Non posso non notare come questa comunità ancora oggi utilizzi due pesi e due misure. Se la riforma è del governo Berlusconi è un conto, se la firma Monti un altro. La destra è il nemico e non è legittimata a intervenire sul lavoro, la sinistra sì e anche il governo tecnico».
Ancora oggi molti dicono che la Legge Biagi non sia frutto del lavoro di Biagi. Semmai del suo e di quello di Sacconi.
«Io già nel 2003 ho pubblicato tutte le bozze e i contributi del professore che dimostrano il contrario. Li ha pubblicati anche Tiziano Treu. È un dato storico, la riforma e anche i decreti legislativi, sono frutto del lavoro di Biagi».
Cos’altro ci ha lasciato?
«Con la creazione dell’Adapt, (l’associazione di studi che prende il suo nome, ndr) ha cambiato il modo di considerare i luoghi di lavoro, il modo di fare impresa e sindacato.

Capì che la precarietà non è colpa delle leggi o dei contratti, ma di percorsi universitari sbagliati, privi di formazione. In questo la sua modernità è totale. Lo teorizzò e lo mise in pratica da maestro. Era il 2002. Solo oggi questi concetti sono patrimonio comune».

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