Bossi a Boni: «Resta al tuo posto» E la base lo incita alla resistenza

Bossi a Boni: «Resta al tuo posto» E la base lo incita alla resistenza

Solidarietà piena, totale, assoluta. Dal partito e dalla base. Davide Boni non si dimette da presidente del Consiglio regionale lombardo, almeno per il momento. Ma il suo destino è nelle mani di Umberto Bossi. Ieri il Senatur l’ha convocato in via Bellerio. Due lunghi colloqui accompagnati da un confronto a distanza con i colonnelli leghisti impegnati a Roma, e intrecciati con le telefonate dei militanti a Radio Padania. Alla fine la decisione è di alzare le barricate. Per ora. Perché la partita non è chiusa.
«Ti dimetti se te lo dico io», è la consegna di Bossi. D’altra parte, il Boni è uno che «se Bossi dice che la mia giacca è bianca, è bianca anche se non lo è». Quindi, se il capo dice che si deve dimettere, il soldato Boni sgombrerà il campo anche controvoglia. Significa che la sua uscita di scena non è un’ipotesi accantonata. L’accusa della magistratura è pesante: corruzione. Tangenti per lui, ma soprattutto per il partito e per finanziare le campagne elettorali. Si profila, almeno nelle ricostruzioni dei pubblici ministeri di Milano, quello che finora non era mai venuto a galla: un «sistema Lega».
Sostenere la tesi che è tutto un complotto. Che la Lega è accerchiata e minacciata perché è l’unico partito di opposizione al governo. Difendere a oltranza Davide Boni. È un momento cruciale per la Lega. Una svolta rischiosa, una vera metamorfosi. La trasformazione dei padani da giustizialisti in garantisti a senso unico, cioè solo con se stessi. Sono passati appena due mesi da quando Maroni tentò di forzare i suoi parlamentari a votare per l’arresto dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino (Pdl) «perché i nostri elettori non capirebbero». Perché il Carroccio resta il partito che non rinnega di aver sventolato il cappio a Montecitorio negli anni ruggenti di Mani pulite. Che appena giunge un avviso di garanzia chiede dimissioni immediate «per fare chiarezza», a maggior ragione se si tratta di un alleato politico.
Invece per Boni non ci sono dimissioni. Nessun passo indietro, almeno per il momento. Nessun arretramento sotto l’incalzare delle inchieste milanesi. E tutto il partito, dopo le fratture degli scorsi mesi, si stringe a falange per fare scudo al numero uno del consiglio regionale lombardo. «Boni non si tocca e non si tocca la Lega», tuona Roberto Maroni dalla sua bacheca di Facebook. Una presa di posizione durissima, una rivendicazione di intangibilità sorprendente per un ex ministro dell’Interno che voleva mandare al gabbio un suo collega di governo.
Ma l’impressione è che non tutto sia stato chiarito all’interno della Lega. Boni entra ed esce due volte da via Bellerio, chiamato a rapporto dal Senatur che sente anche Maroni, Calderoli, Giorgetti e i capigruppo parlamentari bloccati a Roma dal dibattito sul decreto semplificazioni. Il faccia a faccia con tutti è fissato per oggi pomeriggio nella sede milanese del Carroccio, in una riunione allargata ai responsabili amministrativi del partito. Per sostenere una posizione così intransigente a difesa di Boni occorre sapere come stanno davvero le cose. Per dirla alla Matteo Salvini, «la Lega ha l’obbligo di essere al di sopra di ogni sospetto».
Per il momento, il partito insofferente ai guai giudiziari degli uomini del Pdl preferisce essere tollerante con i propri. Il fascicolo della procura di Milano assume i contorni di un’operazione di killeraggio. E la svolta garantista trova il conforto della base. Sono le 17,30 di ieri pomeriggio quando Radio Padania apre i microfoni per raccogliere la voce degli ascoltatori. La notizia dell’inchiesta per corruzione è di 30 ore prima: un lasso di tempo che dà la misura dell’incertezza dominante.
Il filo diretto condotto da Alfredo Lissoni è a senso unico. «Davide non dimetterti, non dargli soddisfazione». «Sai quanti soldi ci sono in giro per l’Expo». «Forza Lega, non facciamoci fare il lavaggio del cervello». «Non sperino di prendersi i nostri voti». Radio Padania è il termometro che misura la febbre leghista. In passato ha dato sfogo alle proteste dei militanti contro le scelte del partito. Ieri ha documentato che non un dubbio scalfisce la base del Carroccio, dopo lo sbandamento iniziale testimoniato dalle scelte de La Padania. Il quotidiano del partito ha negato la prima pagina alla notizia, nascondendola in fondo a pagina 6, sotto il titolo «indagato il presidente del Consiglio lombardo», formula un tantino equivoca e soprattutto priva di ogni riferimento alla Lega.
Umberto Bossi se n’era stato zitto, e con lui tutto lo stato maggiore. Poi il Senatur ha dettato la linea. E il pensiero unico del leader ha fatto breccia. L’indagine della procura di Milano è un attacco dello Stato e della magistratura. «Quando la Lega alza i toni arrivano le bordate», spiega Lissoni a Radio Padania. I giornali sono tutti condizionati, al servizio di Monti e dei magistrati.

«Boni lo prenderà il milione di euro, ma dalle querele per diffamazione. Si attaccano ingiustamente le persone, si viene screditati, e quando tutto finisce in nulla le smentite non vengono pubblicate. Non lasceremo che il suo caso finisca così».

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