Una sola parola, lanciata via sms: «Arrestati». Ilaria Cavo, volto noto delle reti Mediaset, è riuscita venerdì sera a far sapere in Italia che quattro giornalisti erano appena stati fermati dalla polizia cubana. Bloccati per aver fatto il loro mestiere. Costretti a subire una lunghissima udienza - anche se in realtà si tratterebbe di un procedimento amministrativo e non penale - per aver raggiunto addirittura la villetta in cui si nascondeva Reiver Laborde Rico, il super ricercato del massacro di Lignano Sabbiadoro. Il regime cubano non gradisce la libera informazione e così è bastato cavillare sui visti - richiesti dal quartetto per motivi turistici e non come reporter - per fermare lo scoop che stavano confezionando.
Certo non si può mettere sullo stesso piano l'Avana e Roma, ci mancherebbe, ma scatta immediato il paragone, quasi un riflesso condizionato, fra quel che sta succedendo qua da noi, con il caso Sallusti, a un passo dalla prigione, e quel che stanno vivendo Ilario Cavo, il suo operatore Fabio Tricarico, Domenico Pecile del Messaggero Veneto, Stefano Cavicchi, fotoreporter del Corriere della Sera. Naturalmente ci sono molte differenze fra le due vicende, fra l'altro ancora in evoluzione, ma c'è anche un dato comune: il rischio carcere per chi ha il compito di informare l'opinione pubblica.
Alessandro Sallusti è stato condannato a 14 mesi di carcere, senza condizionale, sulla base di una norma che ha le sue radici ideologiche nella cultura fascista del codice Rocco; a Cuba quattro inviati vengono prelevati, interrogati per dodici ore, privati dei video girati, dei telefonini e dei documenti personali. La ragione di tanto accanimento? Avevano scovato il presunto killer del giallo dell'estate: Reiver Laborde Rico, autore con la sorella Lisandra, dello scempio dei coniugi Burgato. E lo stavano intervistando in un'abitazione di Camaguey, la terza città dell'isola, a 500 chilometri dall'Avana. Il giovane infatti, pur accusato di un crimine orrendo, era libero. Ed è libero, per quel che se ne sa, pure ora, mentre gli inviati che gli stavano ponendo domande su domande, sono stati fermati. Insomma, è il mondo capovolto, alla rovescia, con il diritto che finisce sotto i piedi.
Nessuno pensa a facili equazioni, ma l'Italia, l'Italia che ancora manda in carcere i giornalisti per quello che c'è nei loro pezzi, somiglia molto alle peggiori dittature. La cattiva compagnia è purtroppo ben assortita e c'è solo l'imbarazzo della scelta. Invece di confrontarci con la Germania, la Spagna, la Gran Bretagna, siamo al passo con la Corea del Nord, il Sudan, la Siria. E ora Cuba. Non è un bel biglietto da visita per il Paese che vuole vendere all'estero un'immagine seria di sé; l'Italia è indietro, non solo sulla strada delle riforme, ma anche nel rispetto dei diritti fondamentali e infatti siamo incompatibili con gli standard previsti dalla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo.
Una figuraccia sul piano internazionale. Come quella rimediata da Cuba per aver bloccato quattro giornalisti che erano stati più veloci delle autorità ed erano riusciti a parlare con il latitante, rientrato precipitosamente a Cuba dopo l'eccidio.
Anzi, erano già riusciti a far trapelare in Italia parte delle dichiarazioni di Rico. «Io scappato? - si era difeso il fratello di Lisandra - Macché, dovevo tornare da mia moglie, perché doveva nascere il secondo figlio che è venuto al mondo il 24 agosto. La notte del duplice omicidio - aveva aggiunto - ero a casa, tranquillo, perché aspettavo di partire». Non solo, Rei aveva liquidato anche la confessione della sorella: «Nemmeno lei c'entra. Quello che è accaduto in Italia è opera di gente con le palle. L'hanno minacciata».
Ora si aspetta solo il rientro in Italia dei reporter.
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