"Così ho preso per il collo i Grandi della Terra: merito delle stimmate"

Luca Roda. Nelle mani ha ancora l’asfalto dell’incidente di moto in cui rischiò di morire: "Mentre ero sulla sedia a rotelle pensai: metto su una famiglia e un’azienda". Sarkozy indossava una sua cravatta il giorno delle nozze con Carla Bruni. I Bush lo adorano. Dustin Hoffman pure. Storia dello stilista di cui s’è parlato come ministro al posto di Scajola

"Così ho preso per il collo 
i Grandi della Terra: 
merito delle stimmate"

Se non siete persuasi che ciascuno ab­bia il destino nelle pro­prie mani, dovreste dare un’occhiata a quelle di Luca Roda, 44 anni, lo stilista bre­sciano che è riuscito a prendere per il col­lo i Grandi della Terra e che nella settimana appena trascorsa è stato addirittura segnala­to dalla stampa come possibile candidato per il posto di ministro dello Sviluppo econo­mico che fu di Claudio Scajola. «Vede le mac­chie più scure sotto la pelle, qui, e qui, e qui? Asfalto». Senza intenti blasfemi, gli piace defi­nirle le sue stimmate, perché sono questi pic­coli grumi neri ad avergli cambiato la vita. Era il 1995 e Roda scorrazzava in Sardegna, dalle parti di Porto Cervo, in sella alla sua in­separabile Harley Springer Softail che lo ave­va già portato sulle strade di mezza Europa. «Un’auto mi ha investito. Ho strisciato col corpo sull’asfalto per non so quante decine di metri, fino a fermarmi a pochi centimetri dal sasso su cui è incisalascritta “Costa Sme­ralda” con la rosa dei venti.Due mesi d’ospe­dale e tre di sedia a rotelle. Ho avuto tempo per un’introspezione.Alla fine della convale­sce­nza ho deciso che il risarcimento dell’assi­curazione mi sarebbe servito per mettere su una famiglia e un’azienda».

Così ha fatto. Oggi ha una moglie, Paola Boldi, un’avvocata che ha sposato nel 1997, tre figli di 10, 8 e 3 anni e una casa di moda che si chiama come lui. Come fenomeno di nic­chia, Luca Roda ha dell’inspiegabile. Con ap­pena 14 dipendenti e 5 milioni di fatturato, è riuscito a far parlare di sé il mondo intero par­tendo da una semplice striscia di stoffa colo­rata e allargandosi poi a sciarpe, camicie, pantaloni, giacche, abiti, calze, cinture, ge­melli, giubbini, cappotti. Tutti disegnati da lui e solo da lui.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy in­dossava una cravatta di Roda il giorno in cui sposò Carla Bruni, non diversamente dal suo predecessore Jacques Chirac che ne aveva il guardaroba pieno, e da Junichiro Koizumi, per tre volte primo ministro del Giappone, e da Joaquín Navarro Valls, portavoce di due pontefici, fino ad arrivare ai nostrani Giulio Tremonti, Luca Cordero di Montezemolo, Marcello Pera, Fausto Bertinotti, Ennio Do­ris, Luigi Abete, Diego Della Valle, Ferruccio de Bortoli, Carlo Rossella, Enrico Mentana.

È persino capitato che Dustin Hoffman en­tra­sse in una boutique rifor­nita da Roda a Montreal, s’innamorasse all’istante dei capi d’abbigliamento dello stilista bresciano, ne facesse man bassa e dopo qualche mese ordinasse 12 cravatte da indossare in Mr. Magorium e la bottega delle meraviglie, inviando poi una sua foto in bianco e nero con dedica - «To Ro­da, all best», a Roda, il mi­gliore di tutti - alla sede del­­l’azienda, un antico palaz­zo di Bedizzole, nell’entro­terra gardesano. Dodici cra­vatte uguali, regimental, con strisce diagonali di un arancione particolare - al­l’apparenza aragosta, in re­altà becco di fagiano­che già aveva mandato in visibilio i due Bush, padre e figlio, ai quali le aveva donate l’imprenditore bresciano Ugo Gussalli Beretta.

«La gente crede che i colori siano sette, con qualche variante: niente di più errato», spie­ga Roda. «I colori sono inesauribili. Nel dise­gnare una collezione, parto sempre dalla bi­lanciatura cromatica. Sono nato in una casa affacciata sul porticciolo di Sirmione: quan­do il livello del Garda si alzava,avevamo l’ac­qua alta nelle stanze come a Venezia. Per 32 anni ho abitato lì, ancor oggi mi divido fra Brescia e Soiano del Lago, dove vivo d’estate e nei week-end. Il Benàco, con le sue sfuma­ture, è sempre stato la mia tavolozza. Lo sa che è l’unico specchio d’acqua d’Europa ad avere lo stesso colore del mare?».
Il piccolo mare di Virgilio e D’Annunzio.
«Ma il blu non è mai blu. Ci sono infiniti blu, che cambiano a seconda dell’ora. La sensibi­lità me l’ha data Gesù Bambino. È questo il bello del mio lavoro: la ricerca. Poi purtrop­po ­subentra il profitto e tante cose non si pos­sono realizzare. Se i bilanci sono risicati, biso­gna stare molto attenti a divertirsi con la spe­rimentazione».
La vedo preoccupato.
«Mio nonno Giovanni faceva il pescatore sul Garda e mi raccontava sempre le privazioni patite durante la seconda guerra mondiale. La mia generazione è nata e vissuta nell’atte­sa della terza, che non è mai scoppiata però si sta combattendo ogni giorno sotto altre forme. È un conflitto economico nel quale l’imprenditore puro, vecchio stampo, soccom­be. Sento finanzieri che par­lano di milioni senza aver mai prodotto alcunché nel­la loro vita e mi spavento. Far su 1.000 euro a me costa una fatica della madonna. So quanto costa il pane al chilo e anche un litro di lat­te dell’Esselunga, 0,98 eu­ro. Sabato scorso ero in una concessionaria d’auto di lusso a Desenzano, che do­veva prestarmi una vettura di cortesia, e ho capito dalla mimica facciale chi sono i nuovi acquirenti».
Chi sono?
«Imprenditori d’assalto che non ricorrono più al leasing o alle cambiali: pagano in con­tanti. Perché è gente che, con la crisi, ha co­minciato a chiedersi: a chi posso rubare? E per prima cosa ha cominciato a rubare allo Stato».
Non oso chiederle come se l’è cavata lei.
«Io ho avuto un grande privilegio: ho trasfor­mato in lavoro la mia passione. Da Brescia ho imparato l’arte di alzarsi presto la mattina e rincasare tardi la sera. Ho sempre badato più all’essere che all’avere. Mai fatto scelte guidato dalla molla del guadagno. Se mi fossi messo a vendere case sul Garda, a quest’ora avrei già beneficiato di due boom immobilia­ri».
È ricco di famiglia?
«Lo credono tutti. Invece no. L’unico vantag­gio è stato che i miei avevano un albergo a Sirmione, il Florida, dove ho imparato che il mondo non si ferma a Eboli. A 20 anni ho vis­suto per sei mesi tra New York e Los Angeles. Poi sono tornato in Europa e fino ai 24 ho la­vorato a Monaco di Baviera, come rappresen­tante di una ditta d’abbigliamento in Germa­nia, Austria e Svizzera. Quindi fino ai 28 sono stato a Milano, nel cravattificio che Her­mann Prochownick, giunto da Lipsia nel 1880, aveva aperto in via Matteo Bandello. Negli anni Trenta i figli italianizzarono il loro cognome. Ho imparato tutto dal proprieta­rio, Alberto Procovio, che definire eccentri­co è dir poco. Viveva di una splendida auto­sufficienza artigianale. Gli davo consigli non richiesti sulle collezioni. Procovio inarcava il sopracciglio, ma poi li metteva in pratica. Do­vevo tenere la valigia sempre pronta in uffi­cio. Era capacissimo di fermarmi sull’uscio alle 19.30: “Roda, dove sta andando? Le ho preso un biglietto per Tokyo. Parte fra due ore”».
Lei usa spesso il sostantivo dandy. Ma ha senso nell’era dello sbraco collettivo?
«Sì, secondo me una compiaciuta raffinatez­za nel vestire ha ancora senso. Il capostipite è stato Gianni Agnelli. Mantenere una propria identità in un mondo massificato conta pa­recchio. Infatti concettualmente mi conside­ro un anarchico».
Che cos’è l’eleganza?
«Portamento. Sopra i 90 chili, non può esser­ci eleganza, a meno di non essere alti, alti, alti...».
È partito con la sua impresa proprio men­tre Gianni Versace pubblicava L’uomo senza cravatta.
«Non ho mai preso l’onda di niente. Magari è solo snobismo, altrimenti dovrei pensare che sono scemo».
Il suo collega Maurizio Marinella, titola­re dello storico atelier di Napoli, mi ha confessato che quando nel 1994 uscì il li­bro in cui Versace propugnava l’uso della maglietta nera al posto della camicia, pro­vò un brivido di terrore e si mise a produr­re orologi, profumi, scarpe, persino carte da gioco. Non teme che la cravatta un gior­no possa finire, com’è stato per le ghette?
«No, perché è proprio nel momento del mas­simo conformismo che l’anticonformista prova il piacere di tornare alla tradizione. Or­mai abbiamo toccato il punto più basso. Più giù di così non si può andare».
Comunque ha diversificato anche lei.
«Il calo della cravatta è stato compensato dal­la moda della sciarpa. Ormai s’indossa an­che per andare in bagno. D’inverno incontro gente con la sciarpa a tavola, gli finisce den­tro il piatto. Ma è moda, va bene così».
A lanciare le sue pashmine contribuì Lilli Gruber durante la guerra in Irak.
«Be’,la vedevo in onda da Baghdad con que­gli orribili veli neri. Mi parve giusto farle ave­re qualcosa di più leggiadro e colorato. Non mi vestirei mai di nero. Pensi che persino il mio smoking è di un blu scuro che sembra nero ma non è nero».
Più ancora detesta il gial­lo, ho letto.
«Il grande regista francese Éric Rohmer, morto a gen­naio, venne a trovarmi do­po essere stato premiato col Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia per Il raggio verde. Mi fece confe­zionare a mano una dozzi­na di cravatte gialle e mi dis­se: “ Non so come le utilizze­rò. Vuole un consiglio, mon ami? Dopo aver fatto le mie cravatte gialle, ab­bandoni questo colore e passi al viola”.
L’ho seguito alla lettera. Da 12 anni il vio­la è il mio colore predilet­to».
Enzo Biagi diceva che porta iella.
«Un pregiudizio dei vecchi teatranti».
Ma lei come fa ad accalappiare tutti i Vip?
«Per interposta persona. Trovo sempre un amico dell’amico che li conosce. I prefissi presidente, regina, principe, dottore non mi hanno mai impressionato, io vado a pelle, giudico dal carisma, mai dal titolo».
Chi le ha detto che la cravatta di Sarkozy al matrimonio con Carlà era una Roda?
«Che discorsi! L’ho vista. Una lineare 8,7 blu, leggermente modificata. Il numero si riferi­sce alla larghezza in centimetri della pala».
Bertinotti è un suo fan.
«Un grande. Arguto, intelligente, amabile. Lo servo da quando era presidente della Ca­mera. Parliamo di tagli e di stoffe. Prima usa­va cravatte di shetland. Con me s’è converti­to al cachemire».
Ecco spiegato il furto delle cinque cravat­te­che gli aveva spedito nella sede di Rifon­dazione a Roma: sono diventati borghe­si, oltreché ladri, anche i comunisti.
«Abbiamo convenuto che s’è trattato di un prestito».
Che non è mai stato restituito.
«Ci sono prestiti che durano per tutta la vita».
Il successore di Bertinotti, Gianfranco Fi­ni, a Montecitorio alterna Hermès e Ro­da.
«Più Hermès che Roda, per la verità».
Fossi in lei, non ne sarei fiero: sembra sempre che abbia la carta stagnola del­l’uovo di Pasqua annodata sotto il mento.
«Ma quelle sono appunto le cravatte pastello­se di Hermès. Tenga conto che il 75% del mio giro d’affari lo faccio con il blu declinato in tutte le sue sfumature».
Perché non prova a convertire Maurizio Costanzo? Oppure il sindaco di Verona, Flavio Tosi, o l’ex governatore del Friuli, Riccardo Illy, che non hanno mai portato la cravatta in vita loro?
«Costanzo non ha collo, fa bene a non metter­la: sembrerebbe impiccato. Accetto la sfida per Tosi: sono certo che riuscirò a fargliela indossare. Con Illy rinuncio. Mi sembra un caso come quello di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat col ma­glioncino d’ordinanza anche a teatro. Irrecu­perabile».
Di che virus si tratterà?
«Onnipotenza. Se a me dicono che dal colon­nello Gheddafi si va in uniforme, me la met­to».
Ci sarà pure qualcosa che anche lei non indosserebbe mai.
«La canottiera».
Il compianto Giorgio Faccioli, che aveva portato in Italia griffe famose come Louis Vuitton, Timberland, Ralph Lauren, Bal­lantyne e Clarks, un giorno mi spiegò la legge aurea per imporre uno status sym­bol: «Ai cosiddetti Vip basta regalare scar­pe, camicie, giacche, maglioni. Si metto­no addosso qualsiasi cosa, se è gratis. È così che si creano le nuove tendenze».
«Non sempre. Anche a me regalano profumi che poi non uso perché non mi piacciono. Le persone importanti ricevono tanta roba e possono scegliere».
Non è riuscito a conquistare Silvio Berlu­sconi, che porta le cravatte realizzate dal­la seteria comasca di Giovanna Canepa, moglie del suo ex ministro Lucio Stanca, e per i regali predilige invece Marinella.
«Vero. Benché il suo amico fraterno Guido Possa abbia cercato di fargli apprezzare le mie,pare che il premier le trovi un po’ troppo sgargianti. Che debbo farci? Tra il colore e Berlusconi, scelgo il colore».
Sa dirmi perché gli indossatori nelle pub­b­licità di moda sembrano tutti dei perfet­ti deficienti?
«I miei sono più o meno normali. Chi utilizza i deficienti di solito è perché veste i deficienti. Peraltro nella mia inserzione istituzionale compaio solo io mentre in smoking bianco mi faccio la barba seduto fra i rami di un albe­ro nel parco del Touessrok, un resort cinque stelle delle Mauritius».
E perché spopolano i modelli androgini?
«Non da Roda. Comunque la moda è un universo un po’ così».
Così come?
«Gay. Di stilisti sposati sare­mo in tre, forse meno. Il che non significa nulla. Però fra le poche certezze della mia vita c’è questa: che mi sento eterosessuale».
So che le piace la poesia preferita da Indro Monta­nelli: If di Rudyard Ki­pling.
«La rileggo in continuazio­ne. Fa pensare».
«Se riesci a mantenere la calma quando tutti attor­no a te la stanno perden­do... ». Che cosa le dà cal­ma?
«L’esperienza».
«Se sai aver fiducia in te stesso quando tut­ti dubitano di te tenendo conto però dei loro dubbi...». Il suo dubbio più atroce?
«Sarò nel giusto?».
«Se sai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni...».

Qual è il suo sogno?
«Aprire una cascina ristrutturata dove acco­gliere giovani sotto i 25 anni desiderosi d’im­parare. Tornare a fare il creativo, anziché l’imprenditore: è quello il mio mestiere».
(501. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

 

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