RomaAmmesso pure che sopravviva a questa maledetta, torrida estate equatoriale - dunque ai tifoni sprigionati dalle correnti, alle decapitazioni rituali in voga tra i capatàz, alle promesse riduzioni di oro pubblico, alla volgare folla di autocandidature, all'annoso dibattito sulle primarie (pari per noia alla sempre controversa questione dell'identità) - non sarà mai più il Pd di una volta. Magari peggio, se possibile; magari meglio, se augurabile. Ma di sicuro diverso.
Basti considerare natura e origine dei candidati ormai certi, dei quali solo il primo, Gianni Cuperlo, vorrebbe rappresentare il «cambiamento nella tradizione». E proprio per questo è il perdente designato, non essendo riuscito a sottrarsi alla «designazione» pesante di D'Alema, il cui appoggio viene ormai accompagnato, dal prescelto, con gesti ampiamente apotropaici. In attesa che spunti la vera mossa anti-Renzi (cui Bersani, Epifani, Franceschini, Marini, Fioroni, Bindi e gli stessi D'Alema e Letta pare che dedichino financo le ore notturne), ieri sono scesi ufficialmente in campo altri due candidati extra-cooptazione: Pippo Civati e Gianni Pittella. Civati, un sottovalutato outsider che non ha possibilità alcuna di vittoria, ma di spostare l'asse del partito sì, ha annunciato di voler «vendicare Prodi, Rodotà e le timidezze di questi anni», di lavorare a «ricostruire il centrosinistra riportando con noi Sel» e di considerare gli altri come «correnti di seggiole, mentre noi ci occuperemo del resto». Costituirà l'«anima bella» del prossimo Pd, molto legata al territorio e al movimentismo di sinistra, sussulti grillini compresi, dunque capace con il suo «manifesto contro il tatticismo» di essere spina nel fianco del prossimo segretario. Anche Pittella, già stimato vicepresidente dell'Europarlamento che si candida per «contarsi all'interno», come tutti dicono, pone una questione reale e spinosa: l'ingresso nel Pse, che significherebbe mutare davvero l'anima del partito né carne né pesce. Appunto per questo, le sue possibilità sono ridotte allo zero.
Il Pd si vedrà, infatti, «condannato» a scegliere l'opzione Renzi anche per aggirare - una volta di più - il nodo cruciale del suo «essere di sinistra» ovvero del suo «essere socialista». Anche il sindaco di Firenze ieri ha in qualche modo ufficializzato la sua partita, facendo sapere - tra il lusco e il brusco delle solite interviste - che si candiderà a settembre, attraverso una manifestazione di forza. «Attenderò le regole - ha spiegato Renzi -, e a settembre decideremo insieme: io e molti altri sindaci di tutta Italia. Se ci sarà, non sarà un'autocandidatura, non sarà un atto di ambizione di un ragazzino che cerca di rovesciare il mondo». La strategia comunicativa del sindaco tenderà piuttosto a rovesciare il tavolo del partito romano, dei «caminetti e delle riunioni inconcludenti che hanno rovinato il Pd», di «un'organizzazione burocratica che aspetta le elezioni per poi quasi perderle».
Renzi tenderà a dimostrare di avere già il partito in mano, attraverso una potente rete territoriale di amministratori, e di voler concorrere alla segreteria per «fare del Pd l'anima della speranza italiana, un partito forte e pensante, curioso e aperto». Il contrario di quello che esiste.
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