Non per pessimismo. Né per fatalismo. Ma solo per semplice realismo: più trascorrono i giorni e più il confronto tra il Pd e il Pdl sulla vicenda Berlusconi si rivela un dialogo tra sordi. Potremmo condire questa constatazione con tanti «purtroppo», «peccato» o, magari, con tanti appelli alla responsabilità. Ma così è. È la cruda verità. Possiamo nasconderla, celarla, ma sta lì, inesorabile, e nessuno può cambiarla per una ragione profonda: un partito come il Pd - ma prima di esso i Ds, il Pds, fino al Pci - che da cinquant'anni ciba la sua base di giustizialismo, che ne ha fatto il suo elemento identitario, non è nelle condizioni di assumere posizioni garantiste. Né tantomeno può accedere all'idea di una pacificazione. Pena la sua dissolvenza. La posizione di Epifani da questo (...)
(...) punto di vista è sincera, rivela il limite di una classe dirigente schiava della piazza, della demagogia, incapace di assumere posizioni coraggiose. È una sorta di «non possumus» che nasce dalle stesse radici di quello che è diventata oggi dopo un lungo processo la sinistra italiana. E sì, perché per trovare il peccato originale bisogna tornare a Enrico Berlinguer: a lui va riconosciuto il merito di comprendere il fallimento del movimento comunista italiano ben prima del crollo del Muro. Ma Berlinguer commise anche un errore capitale che ancora oggi pesa sulla sinistra di questo Paese: invece di aderire al socialismo europeo, si inventò una seconda strada, quella della «diversità» dei comunisti italiani, della «questione morale». L'onestà che dovrebbe essere un valore condiviso (come la bontà, la lealtà, la gratitudine), che dovrebbe appartenere a tutti al di là della diversità di idee, divenne un tratto distintivo, anzi, il tratto distintivo di quel partito: per cui se prima loro erano «comunisti» e gli altri socialisti, laici, democristiani, revisionisti, reazionari; da allora il Pci divenne (ricordatevi lo slogan elettorale) «il partito degli onesti» e gli altri, di conseguenza, «i disonesti», «i delinquenti». Se per Togliatti gli avversari erano i nemici del «comunismo», per Berlinguer erano i nemici della «giustizia». Una concezione totalitaria e strumentale che si è trasformata alla fine nell'unico collante ideologico di quel partito.
In questo «schema» è evidente che gli «onesti» sono i compagni di partito, mentre gli avversari si trasformano sempre e comunque in criminali. Anzi, più sono insidiosi e potenti e più sono criminali: mafiosi come Andreotti; corrotti come Craxi e Forlani; delinquenti abituali come Berlusconi. Di contro, quelli che sono gli alleati, sono anche loro onesti o lo tornano ad essere a seconda delle situazioni: per cui il «sistema di potere» di Craxi era criminale, quello di De Mita o in genere della sinistra democristiana no; il Fini alleato del Cav era un fascista delinquente, quello nemico del Cav, invece, un uomo di principi, al servizio delle istituzioni, ottimo anche per il Quirinale (al poveretto hanno fatto credere anche questo); il De Gregorio che fa cadere Prodi un malandrino inaffidabile, il De Gregorio che accusa il Cavaliere un teste ineccepibile.
È evidente che una sinistra, che nel suo immaginario collettivo interpreta la politica come l'eterna lotta tra onesti e disonesti, non può non individuare nei magistrati i suoi profeti. Così, questa sinistra sempre più giustizialista, prima si è alleata con la parte più politicizzata della magistratura. Anzi, per essere più precisi, l'ha forgiata, creando quello strano connubio, il collateralismo con Magistratura democratica. Poi piano piano il collateralismo si è trasformato in una sorta di subordinazione. E sì, perché anche nel Pd ci sono i Greganti, i Penati, gli scandali tipo Mps. Quelli, però, non sono disonesti o delinquenti. Quelli semmai, come si diceva per i terroristi, sono «compagni che sbagliano». Solo che per renderli meno delinquenti degli altri c'era bisogno di una magistratura amica pronta a mondarli. Ma una sinistra siffatta, subordinata alla magistratura e con un tessuto ideologico e programmatico così fragile, alla fine non poteva non pagare le sue scelte: se il «tratto» identitario è l'onestà, ci sarà sempre qualcuno che si proclama più onesto di te. Siamo passati da Prodi all'infatuazione per Di Pietro, ad un aumento sempre più impressionante di magistrati nei banchi parlamentari del partito. E ora, a conti fatti, c'è un ex-socialista alla segreteria del Pd e due ex-democristiani che si contendono la premiership, Letta e Renzi. Degli eredi di Togliatti e Berlinguer non c'è più nessuno. In più chi tra loro ha tentato di seguire la lezione del Migliore, che pur servo del Cremlino benedì sull'altare dell'interesse generale la pacificazione con l'Italia fascista, con il nemico, in questa sinistra ci ha rimesso le penne: D'Alema è guardato con sospetto dai tempi della Bicamerale; Violante, quello che una volta era considerato il capo delle toghe rosse, è stato processato dalla base del partito solo per aver detto che la commissione che deve decidere sulla decadenza di Berlusconi da senatore non si deve trasformare in un plotone di esecuzione. Insomma, hanno messo in moto una macchina infernale che non riescono a fermare. E uno dopo l'altro stanno facendo la fine degli apprendisti stregoni.
Appunto, la storia degli ultimi quarant'anni di questa sinistra è stata caratterizzata dall'azzardo di sopravvivere al fallimento del comunismo, imboccando la scorciatoia del giustizialismo. Ecco perché il confronto tra Pd e Pdl resterà un dialogo tra sordi. Questa sinistra non può permettersi una pacificazione: ha una classe dirigente priva di coraggio e una base che genera mostri. Semmai può dividersi tra chi punta all'umiliazione di Berlusconi votando subito a favore della decadenza (i vari Casson e Zanda). E chi vorrebbe accompagnarlo dolcemente alla porta (è la strategia che piacerebbe più a un Quirinale che non vuole assumersi nessuna responsabilità) conscio dell'indignazione che l'eliminazione politica di Berlusconi potrebbe suscitare in buona parte del Paese.
di Augusto Minzolini
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