Cronache

Ecco quando il pessimismo è come il colesterolo (buono)

In azienda pensare ai fallimenti innesca meccanismi virtuosi. E nella storia ci sono illustri precedenti: da Hegel a Seneca

Ecco quando il pessimismo è come il colesterolo (buono)

Ci sono cattivi pensieri che fanno stare bene. Funzionano: rendono la vita paradossalmente più serena, preparano al peggio e a gestirlo, e alla fine producono risultati. È un pessimismo che dà successo, anche in azienda. Un pessimismo che rende felici i suoi portatori, i colleghi, i capi. E perciò è da prendere con le pinze, soppesato e analizzato: come il colesterolo, i pensieri negativi possono dare benefici ma anche essere molto pericolosi per la salute dell'ufficio intero. Però - come il colesterolo buono - anche il pessimismo ora è stato sdoganato, gli studiosi ne hanno scoperto il ruolo efficace sul lavoro, cioè in quello che in teoria sarebbe il regno dell'ottimismo a tutti i costi, almeno come filosofia aziendale.
Da anni il mondo del business è dominato dal mito del «pensare positivo»: darsi obiettivi ambiziosi, lottare per raggiungerli a tutti i costi, alzare sempre l'asticella e credere, fino in fondo, che andrà tutto bene. Questo ovviamente in superficie: nella realtà, al di là dei proclami, spesso le riunioni sono un calvario, i discorsi dei colleghi sono accompagnati da sbuffi, e il contributo individuale si traduce in qualche parola bofonchiata, che non significa alcunché, se non disappunto. Totale e lamentoso: ma quali grandi speranze, qui si sta da schifo. Qui si fatica ad arrivare a fine giornata, figuriamoci a fine anno. Altro che nuovi clienti da conquistare, non funziona neanche la macchinetta del caffè. E i cambiamenti, poi: inutili, di facciata. Non servono a niente, niente serve a niente del resto. Solo a fare finire male ciò che comunque era destinato al peggio. Ecco, non è questo genere di pessimismo - un alibi facile e populista per pigri e tirapiedi - che gli esperti ritengono utile. Questo genere è classificabile come «colesterolo cattivo». Quello buono, apprezzato e rispolverato in anni di crisi nera è di altro stampo: è quello che ti rende più attivo, più attento, più pronto di fronte agli intoppi.
Ne ha scritto qualche tempo fa Oliver Burkeman sul Wall Street Journal, in un articolo intitolato «The useful power of negative thinking», l'utile potere del pensare negativo (Burkeman è autore di un libro che spiega a chi sia in cerca di felicità, ma non tolleri il «pensare positivo», come trovare una via d'uscita). Il titolo ricorda molto da vicino una frase famosa di Hegel, quella dell'«immane potenza del negativo», che è - dice - «l'energia del pensare»; insomma la forza vera (lo spirito, per lui) non è quel positivo semplicistico che «distoglie lo sguardo dal negativo» bensì «lo guarda in faccia». Burkeman però ha un altro guru, Seneca col suo disincanto (che poco c'entra con Hegel) e più che altro il pessimismo «utile» è quello di chi fa i conti col peggio che può venire: fallimenti, rischi, crolli e pure il peggio del peggio, quindi, cioè l'aldilà. Uno psicologo ha calcolato che un terzo degli americani ricorra a questo genere di «pessimismo difensivo», per affrontare le difficoltà in modo più efficace.
Non è solo una forma di realismo raffinato, Burkeman cita Steve Jobs: ricordare che morirai è il modo migliore che conosca per evitare la trappola di pensare che tu abbia qualcosa da perdere. È pessimismo? O uno stimolo all'azione? Il motto di Jobs - stay hungry, stay foolish - certo nulla ha a che fare con l'immobilismo o la lamentela gratuita. È troppo facile dividere l'ufficio fra ottimisti e pessimisti: chi negherebbe, a parole, di volere raggiungere il successo? Il colesterolo cattivo è da controllare e curare, ma senza colesterolo non si può stare. Quindi qualche traccia ci sarà, oppure vuol dire che il sangue è finto. Vuol dire che è solo facciata.

Del resto il colesterolo buono è faticoso da costruire e da mantenere, specialmente senza l'aiuto dello spirito hegeliano, come tocca a tutti quanti.

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