Una famiglia italiana sfida la Chinatown di Mestre

Un'ex impiegata, con marito e figlio, venderà vestiti made in Italy nell'ex salotto buono della città: "È un monopolio cinese. Ma sono cresciuta qui e non mi rassegno"

Una famiglia italiana sfida la Chinatown di Mestre

Dolores Modonutti si stupisce: «Paura? Non posso permettermi di avere paura, siamo matti». Via Piave taglia in due la grigia periferia di Venezia, dalla stazione al centro, vecchie case dei ferrovieri, villette déco, portici. La linea di via Piave ora è la trincea degli stranieri, cinesi, bengalesi, nordafricani con i loro bazar, i kebab, gli internet point, le parrucchiere, i bar comprati in contanti. Le retate di spacciatori sono all'ordine del giorno. Un anno fa la Guardia della finanza (la caserma è proprio sulla strada) ha arrestato il boss cinese della zona, Keke Pan detto Luca, e altre 15 persone: importavano clandestini, reclutavano prostitute, sfruttavano il lavoro nero. Via Piave era il suo regno, una trentina di negozi, centri massaggi, perfino un albergo. Valore 20 milioni, tutto sequestrato.

Della via Piave di un tempo, il salotto di Mestre, restano gli edifici liberty, un orefice, un restauratore di stampe antiche e i ricordi degli anziani. Ma da un mese c'è anche una bottega di «moda italiana»: così è scritto sulla vetrina con le lettere adesive. Un segnale di riscossa come ce ne vorrebbero tanti in quest'Italia depressa. Niente lamenti sulle tasse, tanto olio di gomito: «Affrontiamo i cinesi sul loro terreno, impariamo a usare le loro armi». Così, accanto a una vetrina di elettronica gestita da un cinese che non parla italiano, la signora Modonutti con il marito e il figlio Giulio Favaretto ha aperto questo angolo di abbigliamento. Produzione e qualità made in Italy, prezzi orientali. O quasi.

«Qui c'erano le case più belle di Mestre, sono nata in questo quartiere, bisognerà cominciare a farlo rivivere», dice. Lei parte da questi pochi metri quadrati con un pavimento alla veneziana originale: «Comprati per non avere padroni». Tra qualche settimana, finiti alcuni lavori, una festicciola di inaugurazione. È una sfida a Chinatown ma anche alla crisi e alla disoccupazione: «Mio figlio ha più di 30 anni, è laureato in lingue e trova soltanto lavoro precario e mal pagato; noi siamo in pensione. È soprattutto una possibilità per lui. Segue la linea di abbigliamento maschile, io quella femminile, giriamo i maglifici della zona, combiniamo il prezzo e la qualità che i cinesi non possono avere. Da loro prendiamo la capacità di buttarsi, di investire».
Dolores Modonutti è una donna colta e coraggiosa. È laureata in storia, è stata impiegata all'Ilva/Italsider di Marghera, ama la pittura, la lirica (Fenice e teatro Verdi di Trieste), l'architettura, i buoni libri. Tra una cliente e l'altra legge Henry James, ma a portata di mano tiene le 900 pagine di Grande seno fianchi larghi di Mo Yan, premio Nobel per la letteratura: «Dobbiamo pur capire chi sono e cosa pensano questi cinesi che hanno un terzo del debito pubblico americano e il 15 per cento del nostro. Sono confuciani, si adattano a tutto, dormono nei negozi, campano con niente: il mio vicino, qui, dice che bastano 100 euro il mese. Ma non si integrano, appena quattro parole in inglese. E sono tantissimi».

«Smart», così si chiama la rivendita che ancora attende una vera insegna, è arredata con quadri, vasi, specchi e cassettiere di famiglia, gli scaffali sono il regalo di un'amica, i cavalletti appendiabiti vengono da una tintoria chiusa. Una statua in gesso del giardino di casa è diventata un manichino. Si attende seduti su una poltroncina in pelle bianca. Dolores Modonutti la chiama «arte dell'arrangismo». «La gente viene, fa quattro chiacchiere, trova belle cose e un ambiente diverso dai centri commerciali. Possono prendere i capi in prestito per farli provare. Tornano tutti: non c'è uno che si sia tenuto qualcosa senza poi pagare. La gente è sana. Vengono anche i cinesi, danno un'occhiata e se ne vanno senza dire una parola».
È la bottega della fiducia. «Dobbiamo imparare dai cinesi, lo dico seriamente. Imparare a non aspettare che il lavoro cada dal cielo. La generazione di mio figlio quali prospettive ha? I sindacati tutelano soltanto chi il posto ce l'ha già. Che fa il signor Letta? E il sindaco di Venezia? A Mestre ogni strada storica ha un comitato di protesta. Io ho visto tutta l'evoluzione della metallurgia italiana, compresi quelli che andavano in pensione con appena 25 anni di lavoro.

Oggi c'è soltanto cassa integrazione. Per me che ho fatto il 68, questi ragazzi sono ben educati. La mia generazione ha preso le pistole. Noi abbiamo scelto di investire in via Piave, il destino di questi luoghi non è già scritto».

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