Lo dicono i numeri: senza Cav non può farcela

A favore del Pd pronti i "sì" di Lega, autonomisti e Grande Sud. Ma serve l'ok del leader Pdl

Silvio Berlusconi con Angelino Alfano, Renato Brunetta e Renato Schifani, al termine delle consultazioni
Silvio Berlusconi con Angelino Alfano, Renato Brunetta e Renato Schifani, al termine delle consultazioni

Roma - Lo definiscono «suicidio assistito». Oppure: «certificazione di una morte presunta». Il «mandato con paletti» fortemente voluto da Pier Luigi Bersani parte più che in salita: sul ciglio di un burrone.
Sarà un cammino prudente su un sentiero di cui il presidente Napolitano ha spiegato con dovizia il tracciato e, per maggior sicurezza, predisposto appunto i paletti di salvaguardia; non tanto per il premier incaricato, quanto per un eventuale successore istituzionale nel caso che Bersani inciampi. Anzitutto i tempi: non bisogna lavorare frettolosamente, Olanda e Israele ci hanno messo oltre cinquanta giorni. Occorre tranquillità, senza avere neppure lo spauracchio di ritorno imminente alle urne: nessuno dei gruppi convocati vuole nuove elezioni. Sono necessarie larghe convergenze sulle riforme più importanti «di interesse generale», ma sono possibili convergenze più ristrette su scelte minori. In ogni caso, la maggioranza che può far partire Bersani deve essere «certa».
Dal punto di vista politico, ne discendono una serie di conseguenze inevitabili: la prima delle quali che, considerata l'indisponibilità dei Cinquestelle a votare la fiducia, Bersani dovrà rimangiarsi quel «mai con Berlusconi» che ne ha caratterizzato fin qui il cammino. Il Cav torna sulla scena e Bersani deve tornare a fare i conti con la seconda coalizione più forte nell'espressione elettorale. Come potrà farlo, senza perdere la faccia è il rebus da sciogliere. Una traccia, l'unica possibile, viene data dalla formazione dei gruppi parlamentari che in questi giorni si sono costituiti al Senato. Il Pd ha 106 seggi, cui possono essere senz'altro aggiunti i 12 del Misto (forse 11 se la grillina Mangili rassegnerà davvero le dimissioni) e i 10 delle Autonomie (dove siedono anche i socialisti). Siamo a 128; con Scelta civica di Monti (21) si arriva a 149. Per una maggioranza traballante, non proprio «certa», ne basterebbero dieci. Quanti ne conta, guarda caso, l'ultimo fungo spuntato: il Gal (Gruppo Autonomia e Libertà), composto da sette senatori eletti con il Pdl, più due leghisti e Bilardi di Grande Sud.
Se neppure a Berlusconi interessa un sostegno diretto al governo Bersani, è però immaginabile che nei prossimi giorni il suo atteggiamento possa tramutarsi in una «non sfiducia» costruttiva. Cosa che consentirebbe al Pdl di astenersi (al Senato equivale al voto contrario), ma anche di dimostrare «senso di responsabilità» e ottenere una specie di «diritto di veto» sulle scelte che esulino da un programma «per il bene dell'Italia». Cosa non di poco conto, il Cav tornerebbe a poter dire la sua sull'elezione del prossimo Presidente, scongiurando una soluzione-Prodi o altri nomi indigesti. Unico rischio, qualora il governo Bersani partisse e s'infrangesse presto sugli scogli, la possibilità che sia lo stesso Bersani a gestire le eventuali elezioni anticipate.
Ma se il capo del Pd dimostrerà nei prossimi giorni di aver voluto la bicicletta a ragion veduta, è preventivabile che a rafforzare una maggioranza «certa» arrivino anche i 16 senatori leghisti, sempre con una sorta di nihil obstat di Berlusconi.

A questo punto, i numeri ci sarebbero: 175, tali da consentire un inizio di navigazione e di procedere a riforme e scelte economiche più urgenti. Crinale stretto, strettissimo. Ancora una volta, sta a Bersani comprovare di avere i numeri (quelli personali) per potercela fare. Sapendo che, in caso contrario, a cogliere i frutti sarà il suo successore.

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