Il governo dei Prof si è dimenticato dell'Italia digitale

Monti e i suoi tecnici hanno bloccato la riforma Internet degli uffici pubblici e vogliono tornare ai carrozzoni di Stato

Bambini imparano a usare il pc a scuola
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La nebbia digitale, lentamente, comincia a diradarsi. Il governo Monti, dopo tanti annunci caduti nel vuoto e a pochi mesi dalla fine della legislatura, muove i primi passi verso il consolidamento di un disegno delineato fin dai primi giorni del suo insediamento, ma mai reso esplicito. La triade della politica dell'innovazione, dello sviluppo economico e dell'amministrazione pubblica, in parole povere i ministri Profumo, Passera e Patroni Griffi, dopo tante chiacchiere e poco credibili promesse mostra le sue carte. Quel che si inizia a vedere non può che preoccupare e spingere ad un ulteriore richiamo al presidente Monti affinché la smetta di «prendere atto» delle decisioni dei suoi ministri e si assuma per una volta le proprie responsabilità. Non basta dichiarare quanto l'economia digitale sia importante per il Paese e per la sua crescita prossima ventura, se i fatti poi dimostrano la volontà di andare in direzione esattamente contraria.
Leggiamo di strabilianti progetti in materia di comunità intelligenti, scuola digitale, sanità o giustizia elettronica. Di Agende e Agenzie per l'Italia Digitale, di un mondo meraviglioso che, grazie a colossali investimenti (si parla di 2,5 miliardi solo per il prossimo anno) sarà realizzato in pochi mesi. Il decreto per la digitalizzazione, furbescamente chiamato «crescita 2.0», delinea scenari che nel breve volgere di qualche settimana trasformeranno la nostra economia e il nostro Paese. Una riforma apparentemente radicale che in molte sue parti dipende, tuttavia, dall'adozione o meno dei relativi provvedimenti attuativi, dalla disponibilità reale delle risorse economiche, dalla capacità di progettare e mantenere elementi infrastrutturali e di governo delle iniziative avviate.
Il ministro Passera dichiara pubblicamente che ci stupirà per la rapidità delle decisioni del governo. Per fortuna, vista la lentezza con la quale si muove oramai non gli crede più nessuno. Il governo parla di una strategia capace di elevare quasi di un quarto di punto stabilmente e strutturalmente il tasso di crescita del Pil nazionale, ma non spiega cosa in concreto ritiene di poter fare.
Guardiamo avanti e cerchiamo di capire meglio quale sarà l'eredità che il regista digitale Passera e i suoi colleghi stanno preparando per chi tra poco verrà a prendere il loro posto. E, se possibile, limitiamone gli effetti negativi. Occorre dividere in due il problema: 1) cosa resta in materia di strumenti e iniziative per la promozione e l'innovazione nelle imprese, specialmente quelle piccole e medie? 2) Cosa resta in materia di trasformazione della macchina pubblica grazie alle tecnologie e ai servizi digitali?
Sul primo fronte c'è poco da dire: le misure del decreto crescita 2.0 non riguardano i temi (tante volte annunciati) del commercio elettronico, dell'alfabetizzazione informatica e della diffusione dell'uso di internet attraverso il potenziamento delle reti telematiche e delle infrastrutture di telecomunicazioni. Fatta eccezione per qualche piccolo aggiustamento nei tempi di autorizzazione ai lavori di scavo per la posa di cavi o per l'esenzione dal pagamento dell'imposta di bollo per le imprese cosiddette start-up innovative, le iniziative del governo finiranno per tradursi in un nulla di fatto e, in sostanza, in un'altra buona occasione sprecata.
Non così sembra essere per quanto riguarda le misure per la modernizzazione dell'azione amministrativa: su questo fronte, il governo sta realizzando un proprio disegno che lascia un'eredità negativa pesante. Le mosse in materia di innovazione e di modernizzazione della macchina burocratica, in breve sintesi, sembrano essere quattro: 1) bloccare le riforme e i processi messi in campo dal precedente governo; 2) smantellare gli elementi strutturali che collegano in una dimensione sistemica le amministrazioni centrali e quelle territoriali; 3) concentrare in poche mani amiche la responsabilità degli acquisti di beni e servizi informatici; 4) ritornare a un modello di «Stato Imprenditore» nella progettazione e gestione dei sistemi informativi della Pubblica Amministrazione.
La prima mossa si è concretizzata nel riporre in un cassetto tutti i provvedimenti di attuazione del Codice della amministrazione digitale, una sorta di costituzione della Pubblica Amministrazione finalizzata al suo progressivo orientarsi all'uso delle tecnologie della società dell'informazione nei servizi ai cittadini e alle imprese.
Sono spariti così dall'orizzonte strumenti importanti di riduzione della spesa pubblica e di semplificazione nelle comunicazioni tra Pubbliche Amministrazioni e tra l'amministrazione e i cittadini e le imprese: dalla fattura elettronica al passaggio dalla carta al digitale; dalla sicurezza nelle transazioni elettroniche ai pagamenti on-line; dalla promozione della firma elettronica alla condivisione delle banche dati di interesse nazionale; dalla continuità operativa alla ricetta medica elettronica. Non si trattava solo di dare concreta attuazione a una norma ma, soprattutto, di rendere efficaci gli strumenti indispensabili ad un recupero di produttività della burocrazia, riducendo i costi e migliorando la qualità dei servizi. Chi guadagna dalla minore produttività della Pubblica Amministrazione se non alcune imprese tradizionalmente fornitrici di beni e servizi e qualche funzionario compiacente?
Facciamo due conti semplici semplici. Se stimiamo pari al 2% la riduzione degli oneri per spese di personale grazie all'introduzione di nuove tecnologie digitali, otteniamo un risparmio di circa 2,8 miliardi di euro all'anno. Se stimiamo in circa 2 euro a ricetta, il risparmio per il passaggio dalla carta al digitale abbiamo un risparmio potenziale di oltre 1,2 miliardi di euro. Se diffondiamo la fattura elettronica, si riducono i costi di gestione amministrativa di oltre 1 miliardo di euro. Se grazie all'amministrazione digitale recuperiamo un 5% di produttività dell'intero sistema economico, il Pil cresce di almeno lo 0,5%. Non è un caso se nella Relazione della Corte dei Conti sul pubblico impiego del maggio 2012 si legge: «Dopo una parentesi positiva registrata nel 2010, la produttività riprende un trend negativo».
Da qui la seconda mossa: bloccate le riforme, garantire continuità a un percorso all'indietro. Non basta fermare il treno in corsa: occorre anche smantellare le rotaie per essere certi che ripartirà con grande fatica. Tra le infrastrutture fondamentali disegnate nell'ultimo decennio una importanza particolare riveste il «Sistema pubblico di connettività (Spc)». È la base principale su cui immaginare e costruire servizi innovativi della pubblica amministrazione e per la pubblica amministrazione.
Con una serie di decreti, la cui urgenza a questo punto è per lo meno sospetta, i ministri della triade hanno di fatto smantellato tutto. Risultato: ognuno per sé. E via libera alle imprese di vendere a tutte le amministrazioni in modo disarticolato e a costi ben superiori. Le imprese sembrano contente, ma la loro è una visione miope: il vantaggio di oggi si tradurrà presto in una crisi di domani.
Allora la terza mossa: concentrare in fantomatiche «centrali di committenza» la responsabilità degli acquisti sotto il falso ombrello del risparmio di spesa. Se vengono meno i punti di raccordo si rischia infatti di avere troppi interlocutori. E questo a qualcuno non piace.
Il cerchio si chiude con la quarta mossa: confondere i perimetri che separano le società partecipate da amministrazioni pubbliche e le imprese che operano su un mercato competitivo, creando allo stesso tempo spazi di privilegio per le prime a danno delle seconde. Per questo si rincorrono testi normativi, emendamenti, appunti riservati, puntualmente pubblicati sul web, che dicono come le grandi società pubbliche si candidano a spazzare via il mercato e a ricostruire una sorta di nuova Finsiel al quadrato.
La stagione delle imprese pubbliche di informatica l'abbiamo già vissuta. E non sono in molti a rimpiangerla. In conclusione, un'eredità non facile da digerire: buco di bilancio per mancati investimenti in tecnologie; ritardo nella modernizzazione; rimozione delle infrastrutture digitali; ricostruzione di nuovi centri di potere attraverso società pubbliche a cui affidare contratti e servizi in barba alle regole degli appalti pubblici. La discussione sul decreto crescita 2.

0 potrebbe essere l'occasione per limitare i danni. Cari ministri, se il Paese vi sembra addormentato, sappiate che così non è. E che in genere vince la saggezza popolare quando insegna che tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine.

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