Politica

La grande farsa dello spread: ai minimi, ma è sempre crisi

Due anni fa il governo Berlusconi fu fatto cadere dai diktat di Merkel e Bce. Oggi con il differenziale sotto i 250 l'Italia è ancora politicamente instabile

Agosto è sempre un mese di riflessione. Due anni fa, nel 2011, proprio all'inizio di agosto ci veniva recapitata la lettera della Banca centrale europea, cui il governo Berlusconi rispondeva con una immediata manovra da 60 miliardi di euro (cumulati dal 2011 al 2014), che avrebbe consentito al nostro paese di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013.

I mercati, tuttavia, non dimostrarono particolare interesse agli sforzi compiuti dall'Italia in quel frangente, perché lo spread tra i nostri titoli di Stato e gli equivalenti titoli tedeschi continuò a seguire un andamento che prescindeva dalla politica economica nazionale. A novembre 2011, dopo mille pressioni, lecite e illecite, sul governo Berlusconi, legittimamente eletto, arrivò, senza alcun passaggio elettorale, il governo Monti. Il tutto giustificato dall'emergenza.

Ma ad agosto 2012 l'Italia non versava in condizioni migliori. Anzi, la recessione, il debito pubblico e la disoccupazione erano aumentati, e lo spread continuava a viaggiare a livelli altissimi (536 punti base il 24 luglio 2012), più alti dell'estate precedente (373 punti base il 5 agosto 2011), nonostante le misure autodefinite «salvifiche» del governo dei tecnici del senatore a vita Mario Monti. Governo che godeva di una larga maggioranza in Parlamento. Anche di questo, evidentemente, ai mercati e allo spread interessava poco.

Arriviamo ad agosto 2013: checché ne dicano Saccomanni, Letta e compagnia cantante, l'economia italiana è ancora sfasciata, il debito continua a crescere e la disoccupazione pure. A ciò si aggiunge una grave crisi politica, istituzionale e democratica. Siamo sull'orlo di una crisi di governo e di nuove elezioni. Peggio di così? Ebbene, lo spread, in barba a tutto e a tutti, è tornato a livelli più bassi di 2 anni fa, sotto i 250 punti base.

Questo breve excursus si commenta da solo: è l'ennesima dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, dell'imbroglio dello spread, che non dipende tanto da fattori interni agli Stati nazionali, bensì da variabili esogene: la debolezza delle istituzioni europee e il rischio di implosione della moneta unica in primis. Ne deriva che se oggi lo spread è basso non è perché siamo diventati più virtuosi (anzi, il governo è meno solido dell'anno scorso o di 2 anni fa), ma semplicemente perché la moneta unica è più forte. O almeno sembra. Andiamo a vedere perché. E perché in Europa funziona diversamente dagli Stati Uniti.

Ogni anno a fine agosto i banchieri centrali ed economisti di tutto il mondo si riuniscono a Jackson Hole, nel Wyoming, per l'Economic Policy Symposium organizzato dalla Federal Reserve Bank di Kansas City. Pur nell'assenza del banchiere centrale, i 3 giorni di dibattito, dal 22 al 24 agosto, si sono tutti concentrati sulle prossime mosse della Federal Reserve. In particolare: «to taper or not to taper?». Che significa: la banca centrale americana ridurrà i suoi acquisti di titoli sul mercato primario? E se sì, a cominciare da quando e a che ritmo? (Il verbo «to taper» letteralmente significa «ridurre gradualmente»). In realtà, il Consiglio direttivo della Federal Reserve ne discute già dallo scorso maggio, e dalla risposta che si darà a questo interrogativo dipende anche la nomina del prossimo presidente della Fed, alla scadenza del mandato di Ben Bernanke, a fine 2013. Non solo: a questo gli economisti riuniti a Jackson Hole, così come la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, e il governatore della Banca del Messico, Augustìn Carstens, attribuiscono il rallentamento della crescita e la crisi valutaria in atto nei paesi emergenti, i cosiddetti Brics: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Il boom degli ultimi anni in tali Stati è stato spesso legato all'afflusso di capitali stranieri grazie all'enorme massa di liquidità immessa dalle principali banche centrali mondiali. Liquidità che, a seguito dell'aumento dei rendimenti dei titoli di Stato americani conseguente al possibile rallentamento della politica monetaria espansiva da parte della Fed, torna a dirigersi verso gli Usa, con relativo crollo delle valute locali dei Brics.

Gli effetti delle politiche monetarie simili adottate da Stati Uniti e Europa, sono stati, però, differenti: negli Usa immediati, in Europa sempre sofferti. Le decisioni del presidente della Bce, Mario Draghi, sono state messe in discussione, spesso e a prescindere, dalla Bundesbank, causa le ossessioni inflazionistiche della banca centrale tedesca. Con il risultato di delegittimare la Bce e di ridurre la portata degli interventi da essa messi in atto. È avvenuto così con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità (anche noto come Fondo «salva Stati»), sulla cui legittimità abbiamo dovuto attendere il verdetto della Corte Costituzionale tedesca lo scorso 12 settembre 2012. È avvenuto così per il programma di acquisto di titoli di Stato con vita residua fino a 3 anni da parte della Bce sul mercato secondario, annunciato dal presidente Draghi lo scorso 6 settembre 2012, a seguito del «faremo tutto quello che sarà necessario per salvare l'euro» pronunciato a Londra il 26 luglio 2013. Ebbene, su questo programma di acquisti, il cui solo annuncio è bastato per raffreddare i mercati dall'estate 2012 in poi, si pronuncerà a fine settembre la Corte costituzionale tedesca.

Il perché degli effetti diversi di politiche monetarie simili ce l'ha spiegato bene il presidente del Consiglio, Enrico Letta, nel suo discorso di Rimini. «Negli Stati Uniti ci hanno messo poco tempo per decidere e uscire dalla crisi. Poi il virus è arrivato da noi, è entrato in circolo e non eravamo capaci di uscirne. C'entra la politica? E i cittadini si chiedono: cosa conta il nostro voto, la sovranità popolare?».

Negli anni della crisi l'Europa è stata succube, e lo è tuttora, fino a quando la situazione non si sbloccherà con le elezioni del 22 settembre, dell'egemonismo egoista e calvinista della Germania. E la Commissione europea di José Manuel Barroso è stata passiva. Forte con i deboli e debole con i forti, ha ceduto la sua sovranità allo Stato tedesco. Come ci ha ricordato il presidente Letta, con la scusa dello spread sono stati fatti cadere governi legittimamente eletti e il vuoto delle istituzioni ha causato derive populiste, crisi democratiche e sentimenti antieuropei. Non solo in Grecia. Di più: le terapie sangue, sudore e lacrime, imposte con somma improntitudine dalla Germania ai paesi dell'eurozona sotto attacco speculativo, non solo hanno acuito la crisi, ma hanno anche finito col ridurre gli effetti delle misure nel contempo messe in atto dalla Bce.

Delle difficoltà di trasmissione della politica monetaria a causa della crisi, in Europa non si è mai seriamente discusso. Ciascuno deve fare la sua parte. Le banche centrali facciano le banche centrali e i governi facciano la politica economica. L'occasione per cambiare la politica economica europea è a portata di mano. La linea del rigore cieco e dell'austerità fine a se stessa di Angela Merkel non può più continuare. È quella di Angela Merkel, egoista ed egemonica, intransigente, l'Europa che vogliamo? È una Bce bloccata da continui veti tedeschi, impossibilitata a fare crescita e sviluppo la banca centrale che vogliamo? Questi temi, se il nostro paese non fosse eternamente masochista, dovremmo evocare in Europa, per evitare che tutto quello che l'eurozona ha patito negli ultimi 5 anni possa continuare e magari ripetersi. Appunto, se l'Italia non fosse un paese ancora una volta dilaniato da una guerra civile fredda. Se l'Italia non continuasse ad essere un paese avvelenato dall'antiberlusconismo della sinistra.

L'appello fatto sabato dal Pdl alle massime istituzioni della Repubblica, al primo ministro Letta e ai partiti che compongono la maggioranza perché risolvano la questione democratica, nel senso di riaffermare il primato della volontà popolare rispetto a un corpo separato dello Stato e ai suoi ricorrenti abusi di potere, quell'appello è, in fondo, anche un appello a non continuare a farci del male.

Il tempo è scaduto.

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