Era la fine dell'estate di due anni fa, quando l'ex roccaforte di Mu'Ammar Gheddafi, nel pieno della guerra e al culmine della caccia al raìs, custodiva una prigione nella prigione. Nel caldo umido di fine agosto, agonizzava lo zoo più grande di tutta l'Africa. Li avevamo lasciati così, quei 110 ettari di terra bruciati dal sole e divenuti un cumulo di polvere. Tra proiettili e lanciarazzi, dietro sbarre che un tempo erano la loro casa, gli animali selvatici. Senza più né acqua né cibo. Montagne di rifiuti, erba simile a zolle indistinte di catrame, mastodonti come ippopotami, giraffe, e leoni che una volta, sia pure in gabbia, erano socievoli e quasi sprizzavano vanità allo sguardo dei bambini, sembravano piccole sagome senza vita, invecchiate all'improvviso di cento anni. Diciannove leoni erano proprietà esclusiva di Saadi Gheddafi, il figlio del raìs. E così parlava il proprietario dello zoo: «Il governo non ha a cuore le vite umane: come avrebbe potuto comportarsi nei confronti degli animali? Lo zoo ha un debito di 1.5 milioni di dollari verso i fornitori di cibo». Ma lui, Abdel-Fattah Husni, continuava a considerarli «la mia famiglia».
Raccontammo la morte che stava attraversando palmo a palmo quel recinto d'acciaio, nel quale vittime - due volte - gli animali si stavano consumando. Quello stesso giorno, gli appelli italiani: Enpa, Lav e Lipu, affinché il Ministero della Difesa intercedesse presso l'Onu e la Nato. Fu l'associazione IFAW (Fondazione Internazionale per il Welfare degli Animali) a muovere il primo piccolo passo. 25 ottobre 2011, 6mila dollari. Cibo, acqua, antinfiammatori, antibiotici per gli esemplari più in difficoltà. La promessa della fondazione era incoraggiare società e persone a sostenere costi non inferiori a 1600 euro al giorno: il budget per mettere in sicurezza quella selva in agonia, ma ancora viva. Com'è andata a finire?
Non c'è traccia di loro, se non in un anfratto di Facebook, che visto così, di primo acchito, quasi fa pensare a un cimitero: «Remember Tripoli Zoo's Animals». Volontari, reporter, animalisti che discutono di casi mondiali come lo stop al commercio d'avorio in Thailandia: in memoria di ciò che fu in Libia. Ma si leva un voce che parla di loro: «Questa settimana sono andato in visita allo zoo di Tripoli - racconta Nasser Busen, un volontario di Bengasi che oggi vive a Londra - ed era la mia prima visita da quando, a causa della rivoluzione, la manutenzione dello zoo si era bloccata. Le condizioni del giardino sono peggiorate ma lo zoo è ormai a norma internazionale, regge il confronto con tanti giardini europei, molti gabbiotti tengono bene, anche se altri hanno bisogno di lavoro». C'è bisogno di pulizia, perché i rifiuti, da quando la guerra ne ha fatto vero e proprio deposito d'emergenza, sono sparsi ovunque. Ma «gli animali sono in ottime condizioni di salute. Carne, frutta e verdura a loro disposizione sono di primissima qualità.
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