I quattro dell'Ave Maria fanno saltare il banco: nuovi capitalisti d'Italia

Caltagirone, Del Vecchio, Della Valle e Rotelli: da soli valgono un punto di Pil italiano. Ognuno a modo suo sta cercando di sostituirsi al vecchio potere degli istituti di credito

I quattro dell'Ave Maria fanno saltare il banco: nuovi capitalisti d'Italia
Leonardo del Vecchio, su­perboss della Luxottica, Giuseppe Rotelli, nuovo re della sanità lombarda, Diego Del­la Valle e Francesco Gaetano Cal­tagirone sono quattro imprendito­ri che da soli valgono un punto di Pil italiano. Sono i quattro del­l’Ave Maria per cui «un alleato è poco, ma due sono troppi». I loro destini finanziari sono intrecciati, ma non è detto che siano convergenti. Operano in setto­ri diversi, alcuni debbono tutto alle esportazioni, altri ai buoni rapporti con le amministrazioni locali. Vivo­no in città diverse e hanno rapporti trasversali con la politica. Ma ciò che davvero li unisce è la loro (apparen­te) eterodossia rispetto ai salotti buo­ni del nostro capitalismo: sono diven­tati i «pierini della nostra finanza». Spieghiamo meglio. Tutti e quattro, a modo loro ovviamente, stanno di­struggendo pezzo per pezzo quella vecchia massima scolpita nella roc­cia da Enrico Cuccia e cioè che le azio­ni più che contarsi si pesano. Non è più così, non ci sono più timori reve­renziali: sono gli imprenditori che ri­cevono i banchieri e non il contrario. Ieri, proprio nel giorno dell’assem­blea delle Generali e proprio sul Cor­riere della Sera , Del Vecchio è riusci­to a lanciare un serie di piccole bom­be atomiche per la nostra finanza. Ec­cole. 1. L’ad delle Generali deve slog­giare (aspetto comprensibilmente non colto dal titolo del quotidiano). 2. Profumo trasformandosi in Gordon Gekko, ha distrutto Unicredit. 3. Nagel&Pagliaro, cioè gli eredi di Cuc­cia, prestano i soldi a vanvera, come dimostra il caso Ligresti-Fonsai. Per molto meno un tempo si rischiava di non entrare più a Milano. Ma c’è da scommettere che Del Vecchio continuerà a farsi il suo light lunch da Peck senza alcun timore. Il massimo di ri­sposta l’ha ottenuta proprio dal nu­me­ro uno del Leone che ha confessa­to la sua disponibilità a mollare il pat­to di sindacato della Rizzoli.

Della Valle è uno specialista nelle uscite di questo genere ed è stato il pri­mo ad osare. Partì con la famiglia Ad­dams, cioè i Romiti, e poi continuò con il governatore Fazio, e gli arzilli vecchietti (Geronzi&Bazoli).Ha con­tinuato recentemente, anche lui, con Mediobanca e i suoi vertici; si è per­messo di insolentire anche il giovane Elkann, che per la verità non è mai sta­to­centrale nelle questioni che conta­no della finanza milanese. Ma tant’è. Della Valle, come Del Vecchio, pre­tende di comandare dove mette i quattrini. Non crede che le decisioni si possano far prendere a chi non ri­schia un euro. Accusa che peraltro con abilità proprio ieri Del Vecchio ha ribaltato su Della Valle ricordan­dogli che in Generali siede in consi­glio di amministrazione nonostante non abbia un’azione. Pronti a fare scommesse sul fatto che Della Valle presto sbatta la porta a Trieste. D’al­tronde è la filosofia del boss della Tod’s. A chi lo conosce confida: cosa si credono di fare in Mediobanca? Se un pugno di imprenditori, di cui ne­anche si conosce il nome, si mettesse insieme, riuscirebbe a sfilargli la banca da sotto il sedere.

Un’altra caratteristica dei nostri quattro dell’Ave Maria è che non si fanno molti scrupoli a muovere le pro­prie pedine. Francesco Gaetano Cal­tagirone sembra utilizzare le banche come dei taxi. Si era costruito una buona posizione nel Monte dei Pa­schi e di punto in bianco la molla per entrare in Unicredit. Il giochetto gli costa una minusvalenza da 400 milio­n­i e la prima perdita in trent’anni del­la sua holding. Caltagirone, Della Valle e Del Vec­chio hanno spostato i loro appetiti proprio a piazza Cordusio. Sono saliti per i rami. Unicredit è primo azioni­sta­di Mediobanca che è primo azioni­sta di Generali e Rizzoli. È abbastanza chiaro che non hanno intenzione, no­nostante le dichiarazioni ufficiali, di essere soci silenziosi. Se non si può co­mandare in Mediobanca o in Genera­li, tanto vale scalare il dante causa. O comunque hanno spostato le muni­zioni nel fortino più sicuro.

Ne sa qualcosa il nostro quarto pi­stolero: Giuseppe Ro­telli. Mise in punta di piedi il naso nel Cor­riere della Sera grazie all’infortunio dei fur­betti del quartierino. E non si è più fermato, fino a diventare il pri­mo socio privato. Ma è stato tenuto al di fuo­ri del patt­o di sindaca­to che governa tutte le scelte importanti del quotidiano. Se ne fe­ce una ragione. Si di­ce che i suoi due rap­presentanti (due avvocatoni tosti di Mila­no) hanno dato più un pensiero all’ex placido presidente del gruppo, il notaio Mar­chetti. Uomo di altri tempi che riteneva che la gestione degli affari societari della Rizzoli si potesse an­c­ora fare con lo stile se­cretive della vecchia Mediobanca. Rotelli è vero che entra dalla porta di servizio, ma arriva fino al salotto. Un signore che pren­de 400 milioni di euro e fa fuori lo Ior dalla conquista del San Raf­faele, non si fa certo in­timidire da un patto di sindacato della Rcs diviso più che mai. A differenza degli altri tre (Caltagirone che è il più domestico, me­tà del fatturato lo rea­lizza comunque al­l’estero), Rotelli è più legato alle vicende ita­liane. Gran parte del­la sua fortuna dipen­de dalla sanità, in par­ticolare quella lom­barda. Quella sulla quale il giornale di cui è primo azionista eser­cita il suo tradizionale spirito giustizialista.

Insomma i quattro dell’Ave Maria hanno risolto il loro «proble­ma economico»: so­no liquidi, hanno aziende che funziona­no e dicono di essersi scocciati delle litur­giedelnostrocapitali­smo di relazioni. Con tutto il rispetto per le loro grandi esperien­ze imprenditoriali, è meglio non cascarci.

Hanno capito meglio di tanti che un certo bancocentrismo italiano è fini­to. Si adoperano per dare il colpo fina­le. O per sostituirsi ad esso. In fondo in­vestono i loro quattro spiccioli (si fa per dire) sempre su banche (Unicre­dit e Generali) e giornali.

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