Nel vecchio Pci, che aveva tanti difetti ma anche qualche pregio (per esempio nella selezione del personale politico e dei gruppi dirigenti), vigeva una legge non scritta nello statuto né ratificata dal Comitato centrale, ma inflessibile nella sua applicazione pratica. I compagni emiliani, si diceva, devono portare i soldi, ma guai a fargli fare politica. Non c'è niente da fare, si diceva: non la capiscono, non è proprio cosa loro. Nella lunga e tormentata storia del Partito comunista, dalla scissione socialista del 1921 fino allo scioglimento definitivo nel 1991, il potere, com'è noto, era concentrato nella segreteria. E nessun emiliano - nonostante l'Emilia regalasse ogni volta al partito percentuali superiori al 50%, nonché una fetta consistente dell'autofinanziamento - è mai diventato segretario. Non solo: nessun emiliano è mai neppure entrato nella segreteria del partito. L'unica eccezione riguarda Renato Zangheri, leggendario sindaco di Bologna e raffinato intellettuale: nel 1983, al XVI congresso, Berlinguer lo promosse in segreteria. Ma ce lo lasciò per meno di tre anni, e nell'86 lo spedì a Montecitorio a fare il capogruppo (incarico certamente prestigioso, ma a quei tempi più tecnico-organizzativo che politico).
Senza offesa per nessuno, la storia parla chiaro. E la conferma è cronaca di oggi: da quando l'emiliano Bersani è salito al soglio della segreteria, il Pd non ne ha azzeccata una. L'umiliazione subita in queste ore da un divertito Beppe Grillo è soltanto l'ultimo episodio: ma c'è da giurare che ne seguiranno altri.
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