Ius soli? Ius sanguinis? Solo slogan. Buoni per la polemica, ma del tutto inutili e inadatti a risolvere i problemi. Il ministro per l'Integrazione, Cécile Kyenge, è senz'altro tra gli esponenti più conosciuti dell'esecutivo Letta, ma anche tra i più controversi. Oggetto di stupidi insulti, ma anche di inutili piaggerie.
Il ragionamento economico svolto nel mese di luglio ci ha portato, numeri alla mano, alla conclusione che il buonismo produce razzismo. Conclusione cui siamo giunti esaminando la dinamica dei flussi migratori, distinguendo l'immigrazione in due fattispecie: quella «da domanda» e quella «da offerta». Nel primo caso, gli immigrati, in prevalenza lavoratori dipendenti, hanno alta propensione alla stabilità e trovano di fatto nei paesi ospitanti esplicite strategie assimilative: lingua, scuola, casa, modelli culturali, ecc... Questi flussi di immigrati entrano così nel ciclo sociale delle economie di destinazione attraverso il lavoro. L'assimilazione è, dunque, solo funzione del tempo, in quanto le risorse necessarie al processo di inserimento sono prodotte dalla stessa migrazione e tutti sono perfettamente consapevoli di ciò.
Al contrario, nel caso di migrazioni prevalentemente «da offerta» la ragione del movimento risiede nelle condizioni socioeconomiche dei paesi di origine. I settori di arrivo non saranno quelli centrali manifatturieri, ma quelli marginali-interstiziali-maturi. Ne deriva, di fatto, una precarietà generalizzata. Non entrando nel ciclo sociale, questi migranti ne rimangono ai margini, portando così alla creazione di pericolose tensioni etniche e razziali e di discriminazioni ghettizzanti.
Se la immigrazione è subìta, infatti, rischia di formarsi un pericoloso mix socioeconomico, molto confuso, senza espliciti meccanismi regolatori, senza chiara visibilità economica. È quello che è avvenuto in Italia, dove la migrazione è stata quasi tutta da offerta. Da questa amara constatazione occorre, dunque, partire per sviluppare adeguate e coerenti risposte per il futuro a livello legislativo.
La disciplina sull'acquisizione della cittadinanza è estremamente complessa in ogni paese. Due i grandi criteri: lo ius soli, vale a dire l'acquisizione della cittadinanza per il solo fatto di nascere nel territorio dello Stato e lo ius sanguinis, per cui la cittadinanza si acquisisce in virtù della nascita da un genitore che della cittadinanza in quel paese è già in possesso. Tutto questo, però, spiega poco, se si prescinde dalla complessità dei fattori che possono essere presi in considerazione e che possono a loro volta essere combinati differentemente.
Tra tali fattori vanno considerati: la nascita o meno da cittadini, apolidi, rifugiati, ecc; la nascita o meno sul territorio nazionale; la residenza ininterrotta per un certo periodo sul territorio; la sussistenza di ulteriori requisiti che indichino il livello di integrazione; la finestra temporale nella quale operare la richiesta.
Ai dati di carattere normativo vanno poi aggiunti quelli relativi all'implementazione burocratica delle relative norme. Anche su questo piano possono esservi vari livelli di criticità e complessità. Non va sottaciuta infine la circostanza che il tasso di immigrazione clandestina produce dei riflessi anche sulla legislazione relativa alla cittadinanza. Si tratta di riflessi per lo più indiretti.
Al fine di valutare l'opportunità o meno di modificare l'attuale disciplina italiana di acquisizione della cittadinanza (che oggi fa capo principalmente alla Legge n. 91/1992 e successive modificazioni) appare fondamentale comparare i diversi ordinamenti vigenti nei diversi paesi.
Insomma, l'approccio al tema della riforma della cittadinanza (sul piano normativo e sul piano delle prassi applicative) non può che essere articolato e pragmatico. Atteggiamenti di tipo ideologico e semplificatorio sono assolutamente inappropriati. Non esiste in questa materia un modello unico e universale.
Premesso che, in assenza di un modello universale prevalente di riconoscimento della cittadinanza, le valutazioni sono ampiamente rimesse alla discrezionalità politica di ciascuno Stato, per cogliere le criticità della situazione italiana, può essere utile considerare alcuni indicatori comparativi rispetto ad altri ordinamenti avvicinabili a quello italiano, sia per la collocazione geopolitica, sia per l'appartenenza all'Unione europea.
A questo fine si farà riferimento a uno (il più significativo) degli indicatori sulla cittadinanza elaborati dall'European observatory on democracy (Eudo): un consorzio di istituti di ricerca che ha sede presso il Robert Schuman Centre dell'Istituto Universitario europeo di Firenze. L'indicatore è il Citimp (Citizen Implementation), che si fonda su 5 fattori relativi alle modalità di implementazione (burocratico-amministrativa) della normativa nazionale: promozione, documentazione, discrezionalità, burocrazia e verifica.
Dall'analisi comparata dei dati emerge che, con riferimento all'implementazione della legislazione sulla cittadinanza, l'Italia è in linea con l'Europa solo sul piano della «verifica», vale a dire il sindacato giurisdizionale, mentre sugli altri fattori è indietro. A volte, molto indietro. In particolare sulla documentazione (facilità nel provare il possesso dei requisiti) la situazione è veramente drammatica. Sulla base di tali criteri, se si svolge un esame sull'intero continente europeo (anche extra Ue) risulta che l'Italia è al 32° posto su 36 Stati.
Un ulteriore elemento che emerge riguarda il luogo di residenza di coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana tra il 2007-2009. Dall'analisi emerge che una percentuale molto rilevante di costoro risiede all'estero. È lecito, pertanto, desumere che, attesa la sua conformazione geografica, unita all'appartenenza all'Unione europea, l'Italia, oltre ad essere un paese particolarmente appetibile ai flussi migratori, rappresenta spesso solo un luogo di passaggio intermedio verso altre destinazioni. L'acquisizione della cittadinanza è, dunque, spesso strumentale alla successiva emigrazione in altri paesi, resa più facile dall'aver acquisito la cittadinanza italiana.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte si conferma la necessità di adottare sul tema della cittadinanza un approccio laico, pragmatico e articolato. E tra i primi, va affrontato il nodo dell'acquisizione della cittadinanza come scelta meramente strumentale ad una successiva emigrazione in altro paese. Su questo piano, l'intervento deve riguardare, più che le norme sull'acquisizione della cittadinanza, quelle sul suo mantenimento e sulla possibile perdita o revoca della stessa, mediante l'individuazione di criteri che «smascherino» tentativi di uso opportunistico delle norme.
In conclusione, e senza pretesa di completezza, qualora si decidesse di intervenire con un provvedimento che disciplini il fenomeno dell'immigrazione in Italia, evitando simultaneamente fenomeni di chiusura e di razzismo, ma anche di buonismo controproducente, si dovrebbe discutere avendo come punti di riferimento le seguenti strategie, da applicare unicamente agli immigrati «da domanda»:
1) una riduzione dei tempi di residenza in Italia ai fini dell'acquisizione della cittadinanza nel caso di nascita sul territorio italiano: si tratta, infatti, di tempi che attualmente appaiono significativamente superiori (a volte di due o tre volte) rispetto a quelli di altri paesi;
2) una qualche disciplina che consenta di mitigare il criterio della durata ininterrotta della residenza in Italia ai fini del riconoscimento della cittadinanza;
3) la previsione della possibilità di anticipare il momento della richiesta della cittadinanza o comunque l'accertamento della sussistenza dei requisiti, magari prevedendo degli «step» durante il lungo periodo di residenza;
4) una miglior definizione dei criteri di acquisizione del diritto di cittadinanza, che limitino l'ampia discrezionalità dell'amministrazione;
5) una disciplina per mitigare, magari con provvedimenti di natura provvisoria o comunque con abbattimento dei tempi, gli effetti della tardività del riconoscimento della cittadinanza acquisita di diritto in presenza dei presupposti di legge.
Di questo, ministro Kyenge, dobbiamo cominciare a parlare.
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